di Alessandra Banfi

‹‹… diceva la verità quando sosteneva che io non valgo un centavo, almeno per tutti quelli che una volta dicevano di essere miei amici, perché naturalmente per me io valgo molto di più di un centavo dato che mi piaccio come sono.››

Frida. Una biografia di Frida Kahlo, Hayden Herrera, Neri Pozza.

Ho cercato anche le foto, dopo. Le foto del funerale. Prima però ho cercato una delle ballate d’addio, La barca de oro, perché non la conoscevo. Me la immaginavo triste – parecchio triste – e infatti lo è, eppure la sua melodia svela anche una rassegnata accettazione che diventa sollievo. Sono stata meglio, dopo averla ascoltata.
Questa ballata è una delle ultime canzoni intonate dai presenti nel momento dell’addio a Frida Kahlo.
Le porte del forno crematorio aperte, il carrello che comincia a muoversi lentamente per portare il corpo di Frida verso il fuoco, io che guardo dalla pagina di un libro e leggo piano per non perdermi niente, per restare ancora in sua compagnia. Ma poi arriva l’ultima riga, l’ultima parola, il punto, e dopo il punto si spengono le luci. Resto sola con il libro appoggiato sopra una pila di romanzi che aspettano d’essere letti.
In tutta sincerità, adesso non ho voglia di leggere altro. Ho bisogno di fermarmi qui per qualche tempo.
Comincio a cercare le foto. Alcune già viste, naturale.
Frida al lavoro, Frida con una piccola scimmia, Frida sorridente, Frida allettata, Frida che taglia lo sguardo di chi la osserva con un’espressione che mi fa venire i brividi.
E poi trovo le altre foto, quelle che non ho mai visto. Quelle che cercavo. Le foto del funerale.
Il viso di Frida nella bara coperta dalla bandiera comunista, grandi cascate di fiori, tanta gente attorno. Mi soffermo sullo scatto, lo ingrandisco. Poi dico che no, forse non dovrei guardare così a lungo.
Parto dalla fine e ripercorro al rovescio la biografia. Dalla tristezza delle ultime pagine ritorno ai passaggi meno dolorosi, quelli che mi hanno fatto ridere, riflettere, mentre la vita di Frida Kahlo prendeva forma sotto i miei occhi. Mi sembra di averla intorno. Sarà l’effetto delle cose scritte con cura. La testa vola in altre storie. Per forza, una vita così straordinaria non può che richiamare altre vite. Vite fantastiche, vite da romanzo. La realtà si mescola all’invenzione. I teschi di zucchero e le macchie di sangue mi riportano alle stravaganze di Macondo, gli scheletri lasciano spazio a Fermina Daza seduta sotto i mandorli di un portico, ma in un istante tornano le ferite aperte e le lacrime, la colonna spezzata e qualche piccola punzecchiatura. Ripenso a Clara chiaroveggente e alle sue stanze piene di spiriti e subito dopo mi ritrovo nella casa di Coyoacan in una girandola di immagini che mi stordisce un po’. Non capisco più dove ho letto cosa e che diavolo sta succedendo.
Ma in fondo provo piacere quando un libro mi rovescia in altri libri. Rivedo posti che non visitavo da un pezzo e ripesco dettagli che credevo d’aver dimenticato. E intorno è tutto un getto di colori, ritratti e pagine di diario che mi trascinano attraverso il Messico, gli Stati Uniti e Parigi fino a ritrovare di nuovo la casa all’angolo tra Calle Allende e Calle Londres. Mi avvicino. Dietro una grande vetrata posso vedere l’interno di una stanza. C’è tanta luce. Pennelli e boccette piene di colore sono disposti in ordine sopra un tavolo. Una donna dipinge davanti a un cavalletto. Ha i capelli scuri e una lunga gonna. Mi metto comoda. Non voglio andarmene subito. Resto a guardarla ancora un po’.