di Giovanni Di Prizito

‹‹I sudamericani hanno un modo per definire quelli che vivono alla giornata, come facevamo noi a quei tempi. Li chiamano despreocupados de la vida.››

Non più tardi di venti giorni fa l’esito negativo di un tampone mi ha messo addosso una certa dose di ottimismo verso la vita. C’era il sole e Bologna era particolarmente bella. Malgrado le automobili, i rumori, l’asfalto e il tanfo ripugnante dei gas di scarico; malgrado la mascherina. Così, uscito dalla farmacia Zarri, mi sono fiondato nella libreria. Piazza Galvani numero Uno.

Acquistato Ciao Vita di Giampiero Rigosi, ho pedalato fino a Villa Ghigi, mi sono buttato sull’erba e ho guardato il cielo. Era più grande del solito. Tutt’intorno invece non c’era nessuno, vuoi la pandemia, vuoi la virologia, vuoi l’aracnofobia, vuoi le formiche dentro ai pantaloni. Solitario, come un cane sciolto, fiutavo la primavera e l’odore delle pagine ancora ignote. Poi, senza troppi indugi, Sergio e Vitaliano hanno preso a raccontarmi le loro storie; il primo ‹‹si diceva rivoluzionario ma in effetti era riformista››, il secondo sciorinava ‹‹il suo anarchismo istintivo.›› Sergio mi raccontava di quando, a Colle Oppio, si aggirava tra gli spacciatori cercando di procurarsene almeno dieci, quindici grammi, pensando che forse avrebbe fatto meglio ad andare al Pigneto o a Tor Bella Monaca. Io allora, a leggere certi nomi, ho chiuso gli occhi e sono tornato a quando, quindici anni addietro, sopra a quel colle ci passavo tutti i giorni.

Insieme a Claudio, Riccardo, Katia, Andrea, Eleonora, Stefania, Chiara, Luca, Simone, Nicola, Mara, Teo, Paolo, Thomas, Fabio, Marco, Silvia, Giuliano, Martina, Alessio e Valerio. A parlare di derivate, integrali, formule fisiche e sessioni di esami, con la leggerezza di chi vive alla giornata e si preoccupa dei voti. Insieme a Roma, ‹‹mignotta, ipocrita, corruttrice, eppure magnifica.››

Fermo, li scruto. Paolo e Stefania se la ridono, Claudio bullizza Riccardo, Teo abbraccia Mara, Silvia e Andrea giocano a tressette, Valerio e Nicola pensano all’Erasmus, Alessio ascolta Eleonora, mentre Katia mi guarda e sorride. Poi mi faccio da parte, torno al motorino, metto in moto e comincio a zigzagare tra le auto incagliate nel traffico. Costeggio l’Università, percorro Via delle Sette Sale, sbuco in Largo Brancaccio e mi ritrovo in Via Merulana, quella del pasticciaccio. Mi fermo, leggo la targa – Al civico 219 in origine ingresso di questo palazzo Carlo Emilio Gadda ambienta le drammatiche vicende del romanzo – e vado avanti. L’aria è ‹‹satura di anidride solforosa, diossido di azoto, piombo, benzene, monossido di carbonio.›› Roma è bellissima.

Sdraiato sull’erba, sotto un sole che non faceva che dire ecchime!, Sergio e Vitaliano continuavano a raccontarmi le storie. Quelle del settembre 1977, quando si aggiravano per le strade di Bologna ‹‹frastornati da tutti quei ragazzi che ridevano, fumavano spinelli, gridavano slogan, bevevano, suonavano, ballavano, si baciavano, discutevano su possibili forme di ribellione›› e quando ‹‹Piazza VIII agosto, allo spettacolo conclusivo di Dario Fo, era stipata di persone›› e ‹‹l’aria sapeva di hashish, patchouli e sudore.›› Sergio e Vitaliano, in un vortice di emotività e malinconia, mi parlavano di promesse e tradimenti. E io ricordavo tutto.

Pagina contro pagina non facevo che pensare e ripensare a tutte le possibili vite, a quelle mai vissute e a quelle rimaste sospese tra un confinamento e l’altro. Sergio era convinto che il vero problema non fosse il passato reale, ma quello possibile, e che ‹‹ognuno ha un momento a cui vorrebbe tornare, per rivivere dei momenti felici o prendere decisioni diverse.›› Il vero problema, mi disse mentre pensavo e ripensavo a quei momenti lì, è che ‹‹per me, come per tutti, non è possibile››.