di Giovanni Di Prizito

‹‹Oh, Jake›› Brett disse. ‹‹Noi due saremmo stati così bene assieme.››           

‹‹Già›› dissi io ‹‹non è bello pensare così?››

Qualche estate fa mi trovavo a Pamplona in calle Estafeta, la via dell’encierro, quella dove corrono i tori prima di arrivare nell’arena e se non stai attento ti becchi pure qualche incornata. E le corna, si sa, non fanno mai bene. Camminando, beatamente accoppiato, cercavo l’odore del primo mattino.

Un mese prima, passeggiando sotto ai portici di Strada Maggiore, mi parai dinnanzi agli scaffali dell’usato della Libreria Ceccherelli e dal mucchio tirai fuori Fiesta, titolo originale The Sun also Rises. ‹‹La prima dichiarazione d’amore di Hemingway alla Spagna›› c’era scritto sulla copertina. Il binomio mi eccitava e l’odore della carta ingiallita mi provocò un brivido di piacere.

Camminando ancora un poco da calle Estafeta presi le viuzze del Casco Viejo fintanto che arrivai in Plaza del Castillo. Subito, senza perdere tempo, entrai dentro al Café Iruña, quello della storia. Quello dove Brett, anche lei senza perdere tempo, aveva abbordato il giovane torero Pedro Romero: ‹‹Dio! […] mi sento tanto vacca.›› Quello dove Jacob – detto Jake – Barnes e il resto della ghenga si sedevano sulle ‹‹comode poltrone di vimini›› e si mettevano a guardare, sotto al fresco dei portici, la plaza. ‹‹Faceva caldo, ma la città aveva un fresco odore di primo mattino, ed era piacevole star seduti al caffè.›› Ebbene, volevo sentirlo anche io quell’odore, volevo fare come loro. E mi accomodai.

Il naso: più lo ficcavo dentro, più capivo che era stato un peccato non ficcarlo prima, quelle pagine ingiallite trasudavano odore di ‹‹cuoio fresco e catrame›› e ‹‹vino del paese››. Come un continuo e oggettivo piano sequenza, così Hemingway mi pareva trattare la parola scritta, mai una di troppo. Mentre io, pagina contro pagina, continuavo a eccitarmi. Altro che il corpo a corpo! Non la riuscivo a domare, la voglia. Mi sentivo come Brett in faccia al torero, ‹‹come posso fermare la cosa? Io non so fermare le cose. Capisci questo?››. E come un toro loco correvo a testa bassa per le vie di Pamplona incollato alla storia.

Giustappunto. Annoiati da Parigi e dalla bohème intellettuale di Montparnasse degli anni venti, Jake e gli altri decidono di andare a Pamplona a cercare la cura alla malattia di vivere. La cercano in mezzo alle alture basche e in mezzo a quelle alture, tra notti insonni, sbornie clamorose, battute di pesca e dialoghi memorabili come solo iddio sceso in terra sa, trascorrono i giorni della fiesta, quella di San Firmino. Giorni in cui ‹‹fin dal primo mattino i contadini erano nelle osterie›› a impiegare ‹‹il valore del loro denaro›› e la ‹‹paglia per terra›› e i ‹‹truogoli per bere contro il muro›› e le ‹‹mangiatoie di legno›› e i ‹‹muri di pietra bianchi e lavati›› e l’alcol e il sesso, tutto insomma, ‹‹pareva una cattiva commedia.›› Giorni in cui ‹‹dalle finestre delle case si affacciavano teste›› che non aspettavano altro che i tori. Giorni in cui Brett era irrefrenabile e mai contenta, nonostante l’amore di Jake e i suoi – buoni o cattivi? – propositi. ‹‹Ho trentaquattro anni, capisci. Non diventerò una di quelle vacche che rovinano i ragazzi.›› Con Jake, Brett e gli altri quei giorni là ci stavo pure io, seduto sopra al vimini a guardare la plaza. A mescolare realtà e finzione.

Come un cane randagio fiutavo ogni odore, dal caffè appena fatto ai cornetti ancora caldi alla merda di piccione. Ogni momento poteva essere buono per sentirlo. Lo cercavo in tutti i modi, volevo quello fresco del primo mattino. Lo stesso che sentiva Jake, lo stesso di quei giorni là. Ma più fiutavo e più lo capivo, quell’odore viveva solo dentro a quelle pagine ingiallite.