di Alessandra Banfi

“Il mio primo ricordo risale a dieci anni prima che nascessi, è di un posto dove non sono mai stato, e riguarda mio papà, che non ho mai conosciuto.”

Comprai questo libro a una bancarella dell’usato, credo. Non ricordo dove e nemmeno quando, forse ero in vacanza, è passato del tempo. Non lo so, non lo so proprio, e non so nemmeno perché lo scelsi. Di certo in quegli anni preferivo altre letture, altre storie, e infatti Un’infanzia ha vagato da un ripiano all’altro della libreria di casa senza mai essere sfogliato.
In ogni caso adesso è sulla mia scrivania, in cima a una pila di agendine, quaderni e fogli scarabocchiati, e non è più lo stesso libro di qualche giorno fa, posso giurarlo. Le pagine piene di pieghe (sì, ho l’abitudine di piegare l’angolo in alto delle mie pagine preferite per ritrovarle con facilità) lo gonfiano e gli impediscono di stare ben chiuso. La copertina è un po’ sollevata e ha il profumo della crema che spalmo sulle mani prima di mettermi a leggere.
Quando un libro mi piace lo sento invecchiare tra le dita, riesco a trasformarlo in un oggetto dall’aspetto trasandato in poche ore. Forse non sono una lettrice rispettosa. Ma io un libro così lo mangerei anche. Mangerei i paesaggi, gli odori, le persone, i colori e i rumori che ci ho trovato dentro. I primi sei anni di vita di Harry Crews.
I raccolti andati al diavolo. La stufa Home Comfort numero 8. Pete Fretch. La famiglia di Willalee Bookatee. Il Libro dei Desideri. Gli occhi dell’opossum seppelliti in modo che guardino in su. Le sbronze pesanti da far arrivare l’odore di whiskey fino a qui. L’Ebreo con i capelli lunghi e la barba bianco sporco. I racconti di Zietta e la stanza degli uccelli. Il guaritore che recita i versetti di Ezechiele. Il volo nel calderone del maiale. Hollis Toomey che parla al fuoco. La fabbrica di sigari.
La Georgia del Sud tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. Prima e dopo, sfondo e cornice. Magia e miseria, famiglie spezzate che trovano sempre il modo di ricominciare.

“Il mondo che circondava la mia gente aveva un margine così ristretto per gli errori e la malasorte che quando una cosa andava storta, si tirava sempre dietro qualcos’altro. Era un mondo in cui per sopravvivere bisognava fare appello al coraggio della disperazione, un coraggio rafforzato dalla mancanza di alternative.”

A me queste storie fanno l’effetto di uno schiaffo in piena faccia. Mi lasciano un istante intontita e poi mi riportano con i piedi per terra. Come adesso. Adesso che l’estate è appena cominciata e già me la sento scappare di mano.
Forse è per questo che Un’infanzia è finito sulla mia scrivania solo in questo momento. Perché non ne avevo bisogno prima. Ne ho bisogno ora.

“In campagna non esisteva la carità. La gente si passava le cose senza tante cerimonie, i piselli perché non potevano venderli o ce n’erano troppi, e lo stesso i pomodori, il mais, il latte, e a volte addirittura un pezzo di carne, perché si sarebbe guastato prima di riuscire a mangiarlo. Ma non lo si faceva in un’ottica dello scambio. Né lo si chiamava elemosina o dono. Semplicemente, rientrava nell’ordine naturale delle cose per gente il cui problema essenziale, il primo e l’ultimo, era la sopravvivenza”.

Da sempre, chi non ha niente mi pare che capisca tutto meglio di me. Che poi non ho molto, ma forse per riuscire a scrivere cose così sincere dovrei avere ancora meno.