di Sara Maria Morganti

Erano molti mesi che non tornavo nella nostra casa di campagna, un piccolo casolare costruito anni fa da qualche mio lontano parente in mezzo alle colline toscane, poco distante dal confine con l’Umbria. Da quando mio nonno è morto, mia nonna ci abita da sola d’inverno e d’estate. In quel pezzo di campagna i cellulari non prendono e in televisione gli unici canali sintonizzati sono l’1, il 2 e il 3. È il posto ideale per leggere indisturbati: basta ignorare il gallo. Per questo avevo infilato in borsa L’animale che mi porto dentro, con l’intenzione di finirlo nel giorno e mezzo che avrei trascorso lì.

Ci sono sempre dei piccoli accadimenti magici legati alla lettura di un libro, ma sono convinta che le case di campagna facilitino la loro comparsa, o quanto meno la loro comprensione. Così, mentre leggevo le parole di Francesco Piccolo, scoprivo la casa guidarmi con gli strumenti che aveva a disposizione.

La prima sera, ad esempio, mia nonna stava guardando Rai 1 ed è iniziato “Techetechetè”, un programma che mi capita di ascoltare solo quando sono lì. Era uno speciale su Sandokan, in particolare sullo sceneggiato televisivo, che non avevo mai visto. E proprio mentre c’era Sandokan in tutte le salse dentro lo schermo del nostro televisore, ecco che dentro al libro leggevo delle sue imprese e del suo amore per Marianna. Sì, perché l’autore si paragona al pirata di Mompracem, feroce come una tigre, ma che rischia di perdere tutto per amore della perla di Labuan, nella quale riconosce una sua cotta adolescenziale.

«Divertente», ho pensato, se non che il giorno successivo, dopo pranzo, mia nonna stava guardando Rai 2. A “Io e te” l’ospite Bruno Vespa parlava del suo ultimo libro, in cui tratta di famose figure femminili del mondo dello spettacolo. Non stavo prestando molta attenzione, ma all’improvviso ho sentito Vespa citare le calze di Laura Antonelli in Malizia e mi è crollato il libro in grembo. Un film che non avevo mai sentito nominare fino a poco prima, quando lo avevo letto nel libro di Francesco Piccolo. E anche stavolta l’autore si immedesima col giovane Nino del film, che manda i fiori ad Angela ma quando lei lo scopre nega fino alla morte, perché si vergogna meno a ricattarla sessualmente che a dichiarare un gesto romantico.

Nonostante la condizione facilitata, devo ammettere di essere stata piuttosto lenta nella lettura, perché L’animale che mi porto dentro è un libro così privato e intimo che quasi mi vergognavo a leggerlo con mia nonna nella stessa stanza, come se lei potesse a sua volta leggermi nel pensiero. Mentre leggevo mi vergognano, ma m’indignavo anche e m’incazzavo, mi eccitavo e poi mi sentivo superiore in quanto donna e subito dopo sporca sempre per lo stesso motivo. A un certo punto volevo addirittura abbandonare del tutto perché sembra quasi che l’autore voglia dire che il motivo per cui si comporta da stronzo è che durante l’adolescenza ha sofferto di acne giovanile. Al che compostamente ho chiuso il libro e mi son detta «eh no, questo no.» Ma poi ho trovato il coraggio di andare avanti, anche perché sentivo la guida della casa, e ho capito che la questione è più profonda di così.

Piccolo parla piuttosto della pressione del gruppo dei maschi sugli altri maschi, istituendo un inquietante parallelo fra questa sorta di perenne controllo “anti-checca” e una vera e propria prigionia nel Panopticon. Un controllo che continua a essere esercitato nonostante il tempo e la distanza, attraverso il ricordo. Credo addirittura che la questione di fondo del libro sia riconducibile al solo rapporto dell’autore con suo padre ormai morto. Infatti il momento più tragicomico di tutti è quello del racconto della sua regressione mentale, improvvisa quanto singolare. Un uomo anziano ridotto a pura pulsione sessuale, che non distingue più le donne della sua vita (sua moglie, sua figlia, la moglie di suo figlio, la bandante), per cui tutte diventano oggetto di attenzioni sessuali. E questa pulsione è l’unica cosa che rimane, mentre il resto viene spazzato via: l’amore per i figli, persino la capacità di riconoscerli, l’amore per la moglie, ogni cosa.

Mi ha fatto venire in mente che quando ero bambina mia nonna accudiva una signora anziana e malata di Alzheimer, che tenevamo con noi. D’estate c’era anche lei nella nostra casa in campagna e io ricordo chiaramente la sua figura nel nostro cortile. Anche lei, come il padre di Piccolo, aveva dimenticato tutto e spesso, non sapendo dove si trovava, si avviava a piedi così com’era, in ciabatte e vestaglia da camera, dicendo che «andava a casa sua». Se nessuno se ne accorgeva, qualcuno la ritrovava lungo la strada, la caricava in macchina e la riaccompagnava da noi. Ricordo anche che scambiava sempre mio nonno per suo marito morto molti anni prima. Eppure non aveva alcun impulso sessuale nei suoi confronti, non se lo voleva portare a letto, non provava a toccarlo o a baciarlo: per lei mio nonno era il suo grande amore e basta. E se questa è una questione di genere, come Piccolo sembra voler lasciare intendere, allora non posso che sentirmi fortunata.

Il fantasma della signora Dilva è solo uno dei tanti che mi sono apparsi mentre leggevo il libro in cui Piccolo parla dei suoi. Terminata la lettura, prima di ripartire, ho salutato tutti i fantasmi legati a quella casa, parenti, amici dei miei nonni. Li ho guardati volto per volto e li ho trovati bellissimi. In tutta onestà, non invidio affatto Piccolo e i suoi fantasmi, che lo seguono ovunque, giudicanti e feroci.