di Giovanni Di Prizito

‹‹Come si può crederci? È come se non esistesse…la realtà…››

Erano più o meno le sette del mattino quando ho ficcato il naso tra le pagine di Helgoland, ultima fatica letteraria di Carlo Rovelli, edito per i tipi di Adelphi. Mi trovavo, come di consueto, a bordo del regionale veloce diretto a Modena. Fuori un sottile strato di nebbia e la Pianura a perdita d’occhio, dentro qualche sbadiglio e un paio di cellulari già connessi. In sottofondo il rumore metallico e stridente del treno che cambia binario.

Estate 1925. Helgoland. Werner Heisenberg è arrampicato su una roccia a picco sul Mare del Nord, aspetta il sorgere del sole e intanto guarda la vastità delle onde, consapevole di aver visto per primo qualcosa che rivoluzionerà la visione della Natura. Del mondo.

Inizio Novecento. L’idea dominante è che alla radice di tutte le variopinte forme della realtà ci siano particelle di materia guidate da determinate forze. Niels Bohr, sulle proprietà degli elementi chimici, non ha dubbi, certo che in ogni atomo gli elettroni orbitino ‹‹su certe precise orbite, a certe precise distanze dal nucleo, con certe precise energie››.

Il giovane Werner, ventitré anni e tanta curiosità, qualche dubbio lo ha, meno certo di una realtà fatta di particelle che si muovono lungo traiettorie definite. La sua idea non prevede definizione, la sua idea prevede oggetti lontani connessi tra loro. Connessi come? ‹‹Non più materia, ma onde di probabilità›› mi disse fin da subito, alla prima fermata, Anzola dell’Emilia. ‹‹In che senso?›› replicai con slancio verdoniano guardando la Pianura.

‹‹Vecchio Professore, cambi il modo di pensare l’elettrone›› asserì invitandomi a seguirlo, ‹‹rinunci all’idea che sia un oggetto che si muove lungo una traiettoria, provi a descrivere solo ciò che osserva dall’esterno›› continuò consigliandomi di basarmi solo su quello che vedo, e non su quello che penso debba esistere. Io però continuavo a non capire. ‹‹Rifletta›› esclamò, ‹‹le particelle come gli elettroni possono essere in realtà delle onde, come le onde del mare›› aggiunse, ‹‹ecco, pensi all’elettrone come un’onda che corre. Mi sta seguendo?››

Francamente, l’idea di sostituire un mondo di materia con un mondo di onde mi spaventava, e poi non capivo come fosse materialmente possibile. Questo significava fluttuare? In un certo senso galleggiare? Ondeggiare da una parte all’altra? Oppure essere tutti mescolati? O ancora non essere mai fermi? Cosa voleva comunicarmi? Di cosa esattamente mi stava parlando il giovane Werner?  Fermata dopo fermata le domande, e quindi i dubbi, aumentavano, facendomi sentire da un lato abbarbicato sulla roccia vicino a lui, dall’altro consapevole dell’immensa vastità della mia ignoranza. ‹‹Lei non veda il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, lo veda come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi e dove, se l’elettrone non sta interagendo, non ha proprietà›› proseguì.

La luce del primo mattino rischiarava la Pianura, lo strato di nebbia era scomparso e il rumore del treno era sovrastato da quello dei cellulari. I pendolari erano pronti a lavorare, come tutti i santi giorni, gli studenti a tornare a scuola. Finalmente. Io ero confuso, pensavo e ripensavo alle osservazioni, alle probabilità, alle relazioni tra le particelle, alle orbite degli elettroni, alle certezze mai certe, alle onde del mare e al fatto che ogni cosa, coerentemente con il pensiero quantistico, a pensarci bene non è che ciò che si rispecchia in altre. Mi sentivo come in uno stato di mescolamento con il cosmo, galleggiavo da un punto all’altro del vagone e non capivo più dove mi trovavo, se a Helgoland sul faraglione o a Modena al binario uno. Werner e io guardavamo le onde, il sole era ormai sorto e il cielo era un abisso denso e bianco che all’orizzonte si scioglieva nel Mare del Nord. E una cosa, almeno una, mi fu chiara. A non farsi domande non si impara niente.