di Giovanni Di Prizito

‹‹Se il tempo in cui ti è dato vivere ti sta stretto e ti angoscia, c’è forse da stupirsi che la mente cominci a vagare e sogni altri tempi, e incredibili macchine con cui raggiungerli?››

A Ventotene ho passato un capodanno. Un poco strano. Non ci stava nessuno, solo io, la compagna e il mare. A Ventotene tirava un vento che spostava tutta l’aria. Un vento che pareva la fine del mondo. Già mentre camminavo me ne resi conto, non si trattava di un posto qualunque. No. Non si trattava solo di uno scoglio nel Tirreno. Nemmeno. Più camminavo più me ne rendevo conto: in mezzo a quelle viuzze, deserte e fangose, aleggiava qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che teneva a che fare con la Dimensione. Qualcosa che non capivo. A Ventotene mi pareva di stare in un altro Tempo.

Anni appresso mi trovavo alla Ubik di via Irnerio, Bologna: portici, colonne e asfalto. Altro che viuzze. Wu Ming 1 presentava la sua ultima fatica, La macchina del vento, Edizioni Einaudi 2019. Lui parlava, mentre io ci volevo tornare a Ventotene.

Wu Ming 1 parlava di quell’isola, dell’isolamento, del confino. L’isola che quando ti giravi, in ogni momento e in ogni direzione, vedevi il mare. L’isola dei cervelli – politici e antifascisti – confinati. Wu Ming 1 faceva nomi e cognomi, nomi e cognomi che mi suonavano già. A Ventotene, oltre al vento, le viuzze, la compagna e il mare, ci stava pure una piazza e una targa attaccata al muro.

‹‹In quest’isola, nel confino imposto dal regime fascista, i primi federalisti italiani Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli […] scrissero nel 1941 l’appello che ancor oggi porta il nome di Manifesto di Ventotene […] per un’Europa libera e unita.››

Wu Ming 1 continuava a parlare. Diceva che per scriverla, la storia, aveva camminato avanti e indietro per l’isola. L’aveva tracciata come un topografo, come avevo fatto io anni addietro. Wu Ming 1 parlava della Dimensione, del Tempo, e a me non mi pareva vero! Infatti mica ci pensai troppo, e di corsa mi ficcai dentro alla Macchina.

Erminio Squarzanti, narratore e confinato di fantasia, racconta di quei cervelli. Quelli dell’Europa libera e unita. Quelli delle ‹‹classi popolari che da sole non saprebbero mai quel che vogliono e sarebbero sempre bisognose di capi che glielo spieghino.›› Quelli dell’Europa ‹‹calata dall’alto perché le masse non sono mature […]››. Almeno secondo Rossi e Spinelli. Perché a Erminio, la calata dall’alto, proprio non lo convinceva. Sicché.

Erminio Squarzanti racconta la vita confinata. Il Tempo che scorre. Quello esasperante del quotidiano – l’appello, il pranzo, la cena e l’arrivo della posta – e quello strano dell’isola. Un Tempo che pare andare per conto proprio. Giacomo Pontecorboli, fisico confinato e altra fantasiosa invenzione, se ne rende subito conto. E subito lo prendono per matto. ‹‹[…] Pontecorboli era un folle, uno dei tanti che arrivavano al confino già matti o inclini a diventarlo […]››. Anche Giacomo si rende conto che in mezzo a quelle viuzze c’è qualcosa di grosso, qualcosa che tiene a che fare con la Dimensione. ‹‹Qui a Ventotene c’è qualcosa che contrae costantemente il tempo. Un fenomeno inaudito, Erminio […]››. Era chiaro. Io e Giacomo avevamo una cosa in comune, ‘na cosa assai grande.

Ci stavo comodo dentro alla Macchina. Alla massima velocità insieme a Giacomo, Erminio e i migliori, ma anche peggiori, cervelli. Più Giacomo parlava – ‹‹La massa dell’isola opera sul tempo… all’inverso!›› – più capivo. ‹‹[…] Come fai a non capire, Ermi’? […] È l’isola stessa a essere una macchina del tempo. Bisogna solo scoprire se possiamo comandarla!›› Tornava tutto. Io invece volevo solo tornare a Ventotene, alla targa. Li volevo rileggere, quei nomi là. Volevo capirci qualche cosa di più.

La Macchina correva e Giacomo mi parlava di campi gravitazionali, masse inerziali e viaggi nel Tempo. Giacomo ‹‹mi fece una vera e propria lezione di Fisica […] Una lezione tutta per me […]››. Lui diceva che era accelerato, il Tempo, come se da Ventotene, le persone, le cose le vedevano prima. Come se da Ventotene, il Pertini – ‹‹[…] la tessera numero uno del partito.›› – e gli altri compagni già la vedevano la Resistenza. Quella vera.

Loro, i compagni, continuavano a camminare e incontrarsi – ‹‹[…] qui non si fa che incontrarsi […]›› – mentre io non vedevo l’ora di tornare a quel capodanno, a quelle camminate col vento che spostava tutta l’aria, a quel Tempo. Alla compagna che fu. Volevo capire cosa aleggiava in mezzo a quelle viuzze deserte e fangose, qual era la cosa grossa. Ebbene. La Macchina mi ci portò, e lui mi aspettava. Sotto alla targa. No, non mi ero sbagliato. Io, Giacomo, l’avevo già incontrato.