di Alessandra Banfi

‹‹Promettiamo di essere nuovi di zecca. Promettiamo di essere semplicemente normali.››

Non mi sono affezionata subito, per intenderci. Anzi, all’inizio ho provato un insistente prurito alle mani. C’era puzza di pregiudizio nella mia testa, era chiaro, o forse era solo una specie di autodifesa contro quello che stavo leggendo e che mi faceva ripetere vabbè, a me non potrebbe mai capitare di cadere così in basso.
L’idea che io – in quella casa, tra quelle persone – avrei fatto la differenza, e in meglio.
Me ne sono vergognata, all’istante. Ho preso il pregiudizio e l’ho schiacciato in fondo alla tasca dei jeans. Ho sospeso qualsiasi commento, ho tolto le scarpe e sono entrata in punta di piedi in questa famiglia malconcia, assorbendo quello che c’era da assorbire, senza pensarci troppo.
Non ho del tutto accettato la scelta di Catherine, ma ho ascoltato i silenzi di Leek, compreso le migliori intenzioni-illusioni di Shuggie e osservato Agnes con la speranza che per lei – per tutti – qualcosa di buono potesse arrivare, prima o poi.
Basta poco per farsi del male, basta un niente. Magari è solo stanchezza. Molli la presa, ti siedi, resti a guardare la vita che va a rotoli ed è fatta. Potrei farlo anch’io. Potrebbe farlo chiunque. Quante volte ci sono andata vicina. Quante ne verranno ancora.
È stata un’immersione lenta. Prima la rabbia, la stizza. Poi un sospiro, la voglia di mettersi in ascolto. La speranza. Piccola, minuscola, trasparente, tutta tesa a trovare un po’ di pace. Pagina dopo pagina, le sconfitte, i ritorni, i tentativi, le legnate, le parentesi sottili di quasi-felicità. Poi ho capito. O almeno, credo di aver capito. Questa Agnes – la faccia che ricorda quella di Liz Taylor, i collant strappati, le notti alcoliche, il cappotto buono e la testa alta – mi ricorda la normalità. Una normalità che fa male e non fa miracoli, ma irrigidisce i ruoli, definisce la trama e ti chiude in un copione dal quale non puoi fuggire. La normalità di tanti, di troppi. Poi cala il sipario e non c’è niente per cui sorridere. Restano le ombre delle cose che potevano essere e che non sono state. I brandelli di una vita fatta a pezzi. Bisogna farci i conti e incassare il colpo. È così che mi ritrovo a fare la lista delle cose buone. Voglio ripescare un po’ di speranza. Per me, per chi è scappato, per chi ha osservato a distanza. Per chi, come Shuggie, ha deciso di restare.
Un’amica conosciuta per caso in un pomeriggio partito storto.
Un fratello che rimane, malgrado tutto, una persona sulla quale poter contare.
Una sorella lontana che forse sta costruendo una vita normale.
Una piroetta fatta sui tacchi di un paio di scarpe tirate a lucido.