di Giovanni Di Prizito
‹‹Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere […]››
L’odore dello scotch da imballaggio, quello del cartone, lo stesso colore. Strappo dopo strappo le scatole si accatastano, la penna continua a scrivere e l’odore non se ne va. Indelebile sempre la stessa parola, libri.
Stringo tra le mani il primo che ho letto qui dentro, “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani, edito da Longanesi. Lo stringo e torno a cinque anni fa, a quell’annuncio letto non ricordo più nemmeno dove, e sento ancora le parole dell’indovino di Hong Kong: ‹‹Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai››. Io allora mi rimetto a guardare il mondo senza più correre. Scorro, al rallentatore.
Da Bangkok, campo base, Tiziano Terzani mi accompagna un’altra volta in giro per l’Oriente tra nuove e vecchie profezie, storie popolari, cibo di strada, gli avvertimenti delle fattucchiere cinesi e i consigli dei monaci buddhisti. Mi ci accompagna senza mai prendere l’aereo, perché così gli ha detto l’indovino diciassette anni prima. Mi ci accompagna in treno, nave, autobus e a piedi. Poi, sempre da Bangkok, mi fa salire su un treno con destino Firenze passando per Cina, Mongolia, Russia, Europa.
Io viaggio e inscatolo, alla giusta velocità. Come una lumaca mi porto dietro la casa provando a liberarmi del superfluo, dell’accumulato ormai passato. E ascolto le storie. Tiziano Terzani mi racconta di quella notte in mare, sul ponte della Nagarose, in mezzo alla luminaria dei pescherecci. ‹‹La notte, l’atmosfera della nave, e di nuovo quell’essere completamente fuori del solito mondo, mi avevano rimesso addosso quell’esilarante senso di libertà che è la mia droga […] Uno dei grandi piaceri della nave era questo aver tempo per lasciar la mente arzigogolare con i pensieri […] A volte era come riscoprire in una soffitta scatole di vecchie foto dimenticate. Sentivo che questo abbandono era risanatore.››
Ebbene. Mi abbandono anche io. Mi abbandono e mi risano con le gambe incrociate sopra il pavimento, senza dire una parola continuo ad ascoltarlo mentre montagne di cartone ingoiano i miei libri, le pareti tornano bianche e l’eco se la ride. Sono le undici, il clima è mite e la stanza è un cubo trasparente.
Traslocare, certe volte, ha il dolce malessere dell’amore quando se ne va. Quando la mancanza diventa nostalgia e i ricordi non fanno più male. Ecco, esattamente questo mi è successo non più tardi di venti giorni fa riascoltando la storia dell’indovino. Una fine. Un vuoto. Un inizio.