di Robespierre Capponi
«Dateme un omo che nnun abbi vizzi: diteme cuale cazzo nun z’addrizzi.»
Per sommi capi, i sonetti erotici e meditativi scritti dal grande poeta Giuseppe Gioacchino Belli sono un encomio alla sorca e all’uscello, ci esortano a ffotte senza ritegno, senza star troppo lì a indugiare; e lo fanno con un incommensurabile memento mori che fa così: «arricordateve che cresce il naso, crescono li cojjoni e cala il cazzo».
Con il Belli il popolo romano, minacciato dalla società del tempo alla pena capitale «de morì ammazzato dentro un cuore e una capanna», trova una piazza dove spolmonare liberamente il proprio dissenso, la propria contrarietà alla castità, la propria avversione nei confronti della società dei preti e dei loro inaccettabili soprusi; e della loro storiella che a scopà come i cani si fa peccato.
E chissà perché se ssò inventati sta fregnaccia, li preti, agucchiatori delle fesse nostre: mortacci loro! Forse se la ssò inventati pe’ sto cazzo de decoro, che a ffotte in mezzo ai fori imperiali a cielo aperto non sta bene che no; o forse se la ssò inventati per contrastare l’aumento demografico, ché tante bocche da sfamà minacciavano le proprie de bocche, vallo a sapè perché.
Credo che questa guerra che la società dei preti abbia fatto a noialtri, poveri fijji de miggnotte, con il risultato di toglierci la libertà del corpo, sia stata vinta da mo’; basti osservare la nostra epoca, dove il sesso senza amore non è come dovrebbe essere, ossia un bisogno corporale al pari de cacà. Il che dovrebbe facce riflette. E infatti, a pensarci bene, dopo che abbiamo defecato ci sentiamo carichi di una certa sensazione di libertà, o no? Al contrario, un orgasmo senza amore ci fa sentire in qualche modo prigionieri della nostra nudità, del nostro imbarazzo, della nostra solitudine e fors’anche della nostra amarezza.
Ci hanno tolto il piacere de ffotte pe’ ce spassà, ci hanno tolto il piacere della carnalità e brutalità dell’atto sessuale fine a se stesso. Ci hanno tolto la naturalezza del movimento, la spontaneità della messa in scena, il piacere de fasse inculà: questa è la «santa iggnuda e vvera verità». Allora a noialtri nun ce sta bene che no. Vogliamo scopà perdio!
Ma per fortuna però che ce ssò le poesie del Belli, almeno ce possiamo masturbà: o si diventa ciechi per questo?
Oppure possiamo iniziare a prendere sul serio le sante parole del Belli e smettere di dar retta ai pretacci, possiamo iniziare ad ascoltare il nostro corpo e magara fottere in mezzo alle vie.
E allora beati coloro che leggono il Belli e che fanno all’amore come si cacano semi di lino, con disinvoltura, perché guadagneranno il regno dei cieli qui e ora, «in sto monnaccio iniquo e ppeccatore».