di Robespierre Capponi

«Quando da piccolo la maestra mi chiedeva quale era il lavoro di mio padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa volesse dire».

Maremma cane, me li ricordo quei momenti interminabili in cui la maestra ci domandava che mestiere facessero i genitori o, ancor peggio, da dove provenissero. Quel tipo di domande avevano il dono di spingermi nel precipizio di una certa difficoltà, a tal punto che speravo non arrivasse mai il mio turno. Non capivo poi perché arrivava, il mio turno, e soprattutto perché fosse così importante conoscere l’estrazione sociale, o territoriale, dei miei genitori.

Per il compagno Alberto Prunetti, autore di Amianto, una storia operaia, non è andata così. Lo scrittore toscano non veniva costretto a provare disagio quando la maestra gli chiedeva quale fosse il mestiere del su’ babbo; e non era costretto a provare disagio perché nella scuola che frequentava i poveracci non erano i figli delle fabbriche, ma gli altri, i figli dei ricchi, le mezze seghe che non sapevano neanche tirare un calcio al pallone.

Con Amianto, primo libro della fondamentale trilogia working class, Prunetti racconta la storia del su’ babbo Renato, saldatore tubista, eroe operaio, costretto dai padroni a saldare tubi sotto un telone ricoperto di amianto. Costretto «a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti», costretto ad ammalarsi per campare. Per un tocco di pane.
Alberto Prunetti racconta la vicenda di Renato con grande coraggio, e lo fa mettendoci il canapone, cioè il cuore, che «regge più del teflon». Lo fa rispettando la filettatura degli eventi, legando poi il tutto «con un dito sporco di mastice verde». Lo fa con le lacrime agli occhi, lacrime che, però, non perdono, perché Alberto ha stretto con forza le parole, «ma senza cattiveria».
C’è un punto preciso nel libro in cui questa stretta decisa la si vede benissimo. Ad un certo punto, infatti, la scrittura di Alberto Prunetti sembra non perdere più, sembra scorrere via fluida, senza singhiozzi e lacrime che annebbiano la vista e che fanno tremare la mano. Gli occhi si asciugano, la mano diventa sicura e la storia prende a scorrere via come un fiume in piena (è il lettore semmai che perde le lacrime). È come se tra le pagine il lutto venisse a poco a poco lubrificato nei suoi ingranaggi, elaborato.

La storia di Renato mi ha ricordato il muratore fiorentino Metello, leggendo Amianto ho incontrato le stesse facce amiche, le stesse coscienze pulite, le stesse mani faticate, e lo stesso identico nemico del romanzo di Pratolini: lo sfruttamento. I lavoratori continuano a essere «stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare». Pretende il diritto di ammazzare.

La storia di Renato, come la storia di Metello, appartiene a tutte le epoche, è una storia vecchia come il mondo, la storia dell’oppressione, dello sfruttamento, della barbarie; la storia infinita dei padroni (mai satolli come i polli e i preti) che sfruttano tutto lo sfruttabile, che si prendono tutto: i corpi, le menti, le vite. Mica altro. Il capitale non si limita a uccidere, consuma lentamente.
Le ferite inferte ai lavoratori, e ai loro cari, si fanno segni indelebili sulla pelle di chi parte e di chi resta, cicatrici d’ingiustizia, di nocività, di ricatti imperituri.

Ma, boiadé, non ci abbiamo fatto il callo.