La forza di gravità

di Sara Maria Morganti

 

Molto difficile recensire un libro. Molto. Si dovrebbe essere in grado di far venire voglia di leggerlo, senza però spiattellare subito le cose che fanno venire voglia di leggerlo. Io non ho mai recensito un libro, si capisce, ma qui mi hanno detto che è uno spazio sicuro, dove le recensioni si fanno come vogliamo, e allora provo a unirmi con piacere. Poi però magari mi cacciano pure da qui e allora capisco che recensire non è cosa per me.

Un altro problema in generale nella vita ma che diventa particolarmente serio se devo recensire un libro è che ho una memoria pessima. Non mi ricordo mica bene le storie che leggo. Riesco a dire se un libro mi è piaciuto o no solo per delle cose che mi ha lasciato dentro, ma dire bene quelle cose poi non so.

Ad esempio, avevo iniziato a recensire un libro che avevo letto durante il confinamento, un libro bello sulla paura e sul ghiaccio, sulla solitudine e sul senso dei viaggi, ma poi niente, mi ricordavo solo dei cavalli con le teste sproporzionate giganti, quindi ho smesso.

Allora adesso provo con quest’altro, che ho letto prima e che s’intitola La forza di gravità. E la prima cosa che vorrei dirvi è perché s’intitola La forza di gravità, ma non posso perché forse è un po’ il senso di tutto il libro e allora ve lo rovinerei. Ma vorrei comunque dirvi che ho letto altre recensioni di questo libro, prima di provare a scrivere la mia, e tutte dicono che la forza di gravità che intende Piersanti, che ha scelto questo titolo qui, non è quella che fa cadere la mela a terra dall’albero, bensì quella che spinge le persone ad avvicinarsi e allontanarsi nella vita. E invece secondo me no! Perché secondo me buona parte di quella forza di gravità lì è proprio quella fisica, e anche se non fa cadere una mela, fa cadere qualcos’altro e vi assicuro che è qualcosa di grosso! Qualcosa che cambia tutti i ruoli dei personaggi e li ribalta, facendo diventare l’adulto il bambino e viceversa.

Poi vi posso anche dire che i personaggi di questo libro non si dimenticano facilmente e mentre lo leggi ti sembra di essere lì con loro, accanto a Serena che porta a spasso molti cani e si vergogna del suo mento, accanto al Professore che non insegna più, ma a lei vuole bene davvero e la aiuta a preparare la maturità e poi la prova di ammissione a Medicina, con tutta la sua genialità cinica. Tipo per intendersi il Professore è uno di quelli che nel bel mezzo della merenda è capace di chiedere a Serena se non siano più interessanti le cellule delle persone che le possiedono. E lei giustamente gli risponde che sono due cose diverse, ma lui insiste: «Puoi studiare proficuamente anche la cellula di un cretino, questo voglio dire. Poi l’individuo è libero di usare miliardi di complesse connessioni per parlare di calcio o di politica… Ma perché parlano? Perché si scambiano foto dei loro sederi?». E alla fine c’ha anche ragione il Professore, però che tranchant, no?

Insieme a loro due ci sono anche molti altri personaggi che gli gravitano attorno, più o meno vicini, più o meno reali. Perché poi in questo libro ci sono anche un sacco di passaggi strani, davvero al limite del sogno, onirici mi pare che si dica, e non si capisce più bene cosa è successo davvero e cosa solo per finta. Tipo che a un certo punto il Professore vede nel cielo un suo vecchio amico, Roberto, «con la cravatta svolazzante per motivi gravitazionali ma per nulla privo di eleganza nel suo leggero impermeabile blu scuro che accarezzava le montagne». Insomma, quel Roberto lì, con le scarpe giganti nel mare, è bello che morto da un pezzo, quindi si capisce che quella del Professore è una visione in piena regola! Ma mentre stai leggendo questi voli verso l’incredibile non ci fai nemmeno caso, tanto le parole si susseguono felici, e arrivi e alla fine e ti ritrovi col libro poggiato in grembo e pensi: come?

Insomma, più o meno queste sono le cose che mi ricordo, poi passate attraverso il filtro del “posso dirlo senza rovinare niente”. A me comunque questo libro mi ha lasciato delle cose, quindi penso di aver finito la recensione.

 

 

Il condominio

di Luca Palladino

«C’è troppa ostilità. C’è sempre stata, ma ora viene fuori. La gente se la prende con i bambini…»

«Chi non lo ha mai fatto non si perda il piacere della paura di leggere Ballard…», recitava così uno degli ultimi consigli del Menta, prima che un utente lo facesse inalberare a tal punto da uscire dal gruppo Telegram che aveva fondato, e dalle nostre vite. Dopo un suggerimento così, non potevo certo perdere l’occasione di leggere James Graham Ballard. Perciò, appena ho avuto il controcazzo di andare in libreria mi sono fiondato negli spazi riservati al genere «fantascienza» (lo scrittore inglese è definito un «innovatore della letteratura fantascientifica»), e, all’altezza della lettera «B» di Ballard, privo di pudicizia ho ficcato la mano nello scaffale tirando fuori Il condominio, edito dai tipi di Feltrinelli. Quando ho iniziato a sfogliare il libro, l’incipit non lasciava alcun dubbio sul fatto che avrei trovato il piacere della paura di leggere Ballard: «Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti verificatisi in quell’immenso condominio nei tre mesi precedenti». Il libro, che tratta della vita piombata nella barbarie di certi inquilini di un grattacielo elegante di Londra, l’ho senz’altro comprato e se sapevo che di lì a poco sarebbe scattato il famigerato lockdown, ne avrei presi anche di più, di libri. La verità è che ho sempre solipsisticamente sognato di prevedere il futuro, soprattutto per azzeccare le scommesse del pallone e diventare ricco come Beef Tannen in Ritorno al futuro. Ma non è ancora mai successo.

Ad ogni modo, iniziando la lettura ho avuto la strana sensazione di non essere dentro un libro di fantascienza, ma, al contrario, percepivo una stramba sensazione di attualità: «Di tanto in tanto i suoi vicini uscivano sul balcone e lo guardavano in cagnesco, come se disapprovassero il suo atteggiamento rilassato». Pareva che quello che mi andava raccontando Ballard, esistesse per davvero, anzichenò. In effetti, là fuori, nella cosiddetta vita reale, il delatore al balcone si era guadagnato il plauso dei compatrioti e le prime pagine dei giornali mainstream: «Bravo!», gli avevan detto. Là fuori si stava consumando una certa gara per aggiudicarsi il primato nel denunciare il passeggiatore, il corridore, il fannullone. Il tizio affacciato al balcone era diventato l’eroe nazionale: non ci si poteva manco più rilassà, bisognava soffrire, bisognava fare la vita di merda. Persino un virologo famoso non si esimeva dal denunciare certi accadimenti. L’esperto in virologia aveva postato, via twitter, una foto datata per dimostrare alla sindaca che sul lungotevere c’erano parecchi potenziali untori. La sindaca, ligia ai suoi doveri di sindaca, aveva ringraziato per la segnalazione e, neanche troppo velatamente contrariata dai suoi concittadini, rincuorato il bravo virologo: «Inviato sul posto due pattuglie della Polizia Locale di Roma Capitale», aveva scritto.

Fuori e dentro il libro l’odio nei confronti del proprio vicino si poteva, era concesso, era finalmente libero di manifestarsi. Il lockdown nella vita reale e una serie di black-out nel libro, avevano fornito l’occasione ai cittadini e ai condomini di lasciarsi andare ai loro impulsi primordiali più meschini, ai loro malesseri psichici irrisolti. L’odio nei confronti del proprio simile, delle classi inferiori e persino dei bambini (ma non dei cani), era à la page sia dentro il libro che fuori. «I nostri vicini hanno tutti avuto un’infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perché non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi…», mi diceva Ballard nel frattempo. Inscatolato nel condominio, avvertivo una certa paura di mettere il naso fuori dalla porta, e di voltare pagina.

Ciononostante, ho trovato il coraggio di aprire la porta per andare a gettare il pattume. Tornato nel condominio senza particolari incidenti (ho avuto a che fare solo con l’abbaiare di un cane e qualche occhio torvo), intrepido, ho capovolto pagina. Ho tirato innanzi, come si suol dire! Non posso negare che il suono dello scorrere della carta mi ha procurato un «illecito brivido di piacere». Ero un inquilino di un grattacielo elegante in una zona residenziale londinese impegnato nel resistere un minuto più degli altri, a mormorarmi che «Finché senti il profumo dell’aglio, va tutto bene»; mi sentivo un gagliardo scalatore sociale dai grossi genitali, pronto a tutto per raggiungere l’attico; ero un potente architetto sul tetto del grattacielo ad aspettare i miei nemici e a decifrare il linguaggio dei gabbiani. Il sesso era stranamente libero, il potere delle donne una reale possibilità e mangiare cani alla brace una voluttà.

In quel tempo fantascientifico ma reale, tutto quello che poteva succedere è successo.

 

La macchina del vento

di Giovanni Di Prizito

‹‹Se il tempo in cui ti è dato vivere ti sta stretto e ti angoscia, c’è forse da stupirsi che la mente cominci a vagare e sogni altri tempi, e incredibili macchine con cui raggiungerli?››

A Ventotene ho passato un capodanno. Un poco strano. Non ci stava nessuno, solo io, la compagna e il mare. A Ventotene tirava un vento che spostava tutta l’aria. Un vento che pareva la fine del mondo. Già mentre camminavo me ne resi conto, non si trattava di un posto qualunque. No. Non si trattava solo di uno scoglio nel Tirreno. Nemmeno. Più camminavo più me ne rendevo conto: in mezzo a quelle viuzze, deserte e fangose, aleggiava qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che teneva a che fare con la Dimensione. Qualcosa che non capivo. A Ventotene mi pareva di stare in un altro Tempo.

Anni appresso mi trovavo alla Ubik di via Irnerio, Bologna: portici, colonne e asfalto. Altro che viuzze. Wu Ming 1 presentava la sua ultima fatica, La macchina del vento, Edizioni Einaudi 2019. Lui parlava, mentre io ci volevo tornare a Ventotene.

Wu Ming 1 parlava di quell’isola, dell’isolamento, del confino. L’isola che quando ti giravi, in ogni momento e in ogni direzione, vedevi il mare. L’isola dei cervelli – politici e antifascisti – confinati. Wu Ming 1 faceva nomi e cognomi, nomi e cognomi che mi suonavano già. A Ventotene, oltre al vento, le viuzze, la compagna e il mare, ci stava pure una piazza e una targa attaccata al muro.

‹‹In quest’isola, nel confino imposto dal regime fascista, i primi federalisti italiani Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli […] scrissero nel 1941 l’appello che ancor oggi porta il nome di Manifesto di Ventotene […] per un’Europa libera e unita.››

Wu Ming 1 continuava a parlare. Diceva che per scriverla, la storia, aveva camminato avanti e indietro per l’isola. L’aveva tracciata come un topografo, come avevo fatto io anni addietro. Wu Ming 1 parlava della Dimensione, del Tempo, e a me non mi pareva vero! Infatti mica ci pensai troppo, e di corsa mi ficcai dentro alla Macchina.

Erminio Squarzanti, narratore e confinato di fantasia, racconta di quei cervelli. Quelli dell’Europa libera e unita. Quelli delle ‹‹classi popolari che da sole non saprebbero mai quel che vogliono e sarebbero sempre bisognose di capi che glielo spieghino.›› Quelli dell’Europa ‹‹calata dall’alto perché le masse non sono mature […]››. Almeno secondo Rossi e Spinelli. Perché a Erminio, la calata dall’alto, proprio non lo convinceva. Sicché.

Erminio Squarzanti racconta la vita confinata. Il Tempo che scorre. Quello esasperante del quotidiano – l’appello, il pranzo, la cena e l’arrivo della posta – e quello strano dell’isola. Un Tempo che pare andare per conto proprio. Giacomo Pontecorboli, fisico confinato e altra fantasiosa invenzione, se ne rende subito conto. E subito lo prendono per matto. ‹‹[…] Pontecorboli era un folle, uno dei tanti che arrivavano al confino già matti o inclini a diventarlo […]››. Anche Giacomo si rende conto che in mezzo a quelle viuzze c’è qualcosa di grosso, qualcosa che tiene a che fare con la Dimensione. ‹‹Qui a Ventotene c’è qualcosa che contrae costantemente il tempo. Un fenomeno inaudito, Erminio […]››. Era chiaro. Io e Giacomo avevamo una cosa in comune, ‘na cosa assai grande.

Ci stavo comodo dentro alla Macchina. Alla massima velocità insieme a Giacomo, Erminio e i migliori, ma anche peggiori, cervelli. Più Giacomo parlava – ‹‹La massa dell’isola opera sul tempo… all’inverso!›› – più capivo. ‹‹[…] Come fai a non capire, Ermi’? […] È l’isola stessa a essere una macchina del tempo. Bisogna solo scoprire se possiamo comandarla!›› Tornava tutto. Io invece volevo solo tornare a Ventotene, alla targa. Li volevo rileggere, quei nomi là. Volevo capirci qualche cosa di più.

La Macchina correva e Giacomo mi parlava di campi gravitazionali, masse inerziali e viaggi nel Tempo. Giacomo ‹‹mi fece una vera e propria lezione di Fisica […] Una lezione tutta per me […]››. Lui diceva che era accelerato, il Tempo, come se da Ventotene, le persone, le cose le vedevano prima. Come se da Ventotene, il Pertini – ‹‹[…] la tessera numero uno del partito.›› – e gli altri compagni già la vedevano la Resistenza. Quella vera.

Loro, i compagni, continuavano a camminare e incontrarsi – ‹‹[…] qui non si fa che incontrarsi […]›› – mentre io non vedevo l’ora di tornare a quel capodanno, a quelle camminate col vento che spostava tutta l’aria, a quel Tempo. Alla compagna che fu. Volevo capire cosa aleggiava in mezzo a quelle viuzze deserte e fangose, qual era la cosa grossa. Ebbene. La Macchina mi ci portò, e lui mi aspettava. Sotto alla targa. No, non mi ero sbagliato. Io, Giacomo, l’avevo già incontrato.

Altri libertini

di Giovanni Di Prizito

‹‹E allora sembra che piano piano tutto passi […] e che quando uno ci ha i cazzi suoi, be’, sono veramente suoi, non c’è da fare un cazzo, manco gli stoici gli epicurei o i filosofi, niente. Non si può impedire a qualcuno di farsi o disfarsi la propria vita, si tenta, si soffre, si lotta ma le persone non sono di nessuno, nel bene e nel male››

L’altra notte ho fatto un sogno, aveva un odore particolare. L’altra notte mi è apparso Pier Vittorio Tondelli. Parlava dei quattro leoni di Piazza San Prospero, ‹‹che di notte è bellissima›› e che sta a Reggio Emilia. Ebbene, l’Emilia, paranoica ma pure ragionata.

Giorni addietro, a pochi attimi dall’isolamento, mi trovavo su un grande telo bianco sopra all’erba di Villa Ghigi, noto parco urbano di Bologna, Emilia anche lei. E non per puro caso ficcai il naso dentro agli Altri Libertini. Edizione Feltrinelli. 1980.

Già mi resi conto, mentre leggevo la prima, la seconda, et cetera pagina di avere tra le mani qualcosa di grosso. Dentro al Postoristoro‹‹luce sciatta e livida, neon ammuffiti›› – insieme a la Giusy, il Bibo, la Molly che chiede cento lire, il Johnny e il Salvino capobanda, in mezzo agli sgabelli del vecchio self service che non funziona più, ci stavo pure io.

Davanti a me, chino sul grande telo bianco sotto un sole che diceva ecchime!, ci stavano invece due baldi giovani che lavoravano sodo. La tromba uno, il sassofono l’altro. Frattanto la lettura fu ancora più lieta. Sotto lo stesso sole il Tondelli mi raccontava le gesta disinibite, le storie. Le raccontava a modo suo, senza fare troppo caso alla didattica. Oscenità e turpiloquio per le bestemmie e il contenuto, disse il procuratore bloccando e sequestrando migliaia di copie pronte alla lettura. Ma poi, correva l’anno 1981, il Tondelli fu assolto da ogni accusa e gli Altri Libertini tornarono liberi.

Lui, sotto a quel sole, continuava a raccontarmi le storie. Quelle della vita, quelle dove si fa all’amore, quelle dei buchi sopra alle braccia. Le storie della Bassa padana. Le storie dell’unico sogno sempre sognato, la fuga, e forse rimasto in quegli anni là. Quelli dell’impegno. Politico. ‹‹Chiedi a settantasette se non sai come si fa.››

In tutto sei. Sei storie. Sei episodi. Sei pizzichi. Al centro – màs o menos – l’esplorazione sentimentale di un poco più che ventenne. La passione rovente, la scoperta di sé e la paura del sentimento. Storie come punture. Storie della provincia. Da Correggio al Mare del Nord. Su quel ‹‹rullo di asfalto››, che quando le vedi, ‹‹le luci del casello d’ingresso››, e quando lo senti, ‹‹l’odore del Mare del Nord››, ti fa venire la voglia di prenderla anche a te la ‹‹ronzinante cinquecento con su gli scoramenti e dentro tanto vino e in bocca tanta voglia di gridare››. Su quel ‹‹rullo di asfalto›› che sta a cinque chilometri da Correggio, l’Autobrennero, ‹‹che è l’Autobahn più meravigliosa che c’è […] entri a Carpi ed esci lassù››. E poi il Viaggio, quando ‹‹la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia››, quando Gigi, ad Amsterdam, ‹‹è immobile con gli occhi spalancati verso il soffitto […] ma non risponde, gli sfugge soltanto un sorriso antipatico››, quando ‹‹Gigi comincia così coi buchi››. E poi tutto il resto. Sei storie. Sei episodi. Sei pizzichi. L’iniziazione all’amore, tutto.

Ebbene, i baldi giovani continuavano a fiatare, il sole a picchiare duro e io c’entravo dentro, a quelle pagine. Mentre il telo scavava dentro all’erba. Tutto entrava dentro a tutto. E allora, ignaro del venturo isolamento, la sognavo pure io. L’Autobahn. Sognavo pure io il ‹‹Gran Miracolo […] l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e la campagna e che quando arriva senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’oceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani e lo sferragliare dei docks e dei cantieri e anche il puzzo sottile delle alghe che la marea ha gettato sugli scogli››. Lo sognavo pure io quell’odore là.

Questo ho sognato l’altra notte, quell’odore là. E poi quello di Piazza San Prospero, ‹‹che di notte è bellissima››, e dei quattro leoni, e della via Emilia. L’Emilia, sempre più paranoica, sempre meno ragionata. L’Emilia degli Altri Libertini. L’Emilia di quegli anni là. ‹‹Chiedi [sempre] a settantasette se non sai come si fa›› e poi entraci dentro pure tu, al Postoristoro. L’altra notte, dentro all’isolamento, ho sognato l’odore dell’unico sogno sempre sognato. La fuga.

Il rap spiegato ai bianchi

di Luca Palladino

 

“No more fuckin Rock ‘n’ Roll!”

 

La scorsa settimana non stavo bene in Italia, precisamente vicino alla città di ***. Frattanto che stavo male, sono andato a sbattere nelle parole di Mark Costello e David Foster Wallace, ossia nel loro saggio Il rap spiegato ai bianchi, pubblicato da una casa editrice che si chiama Minimum Fax.
Il libro su cui sono incappato riposava in una piccola libreria privata, e forse non aveva per niente voglia di finire tra le mie mani; purtuttavia ci è finito, cosicché, sfogliandolo, sono venuto a conoscenza del fatto che i due autori si chiedono per quale motivo, cioè per quale assurda circostanza, condividono una sfrenata passione per quel certo tipo di musica, o meglio “anti-musica”, chiamata rap: una musica nera fatta da e per gente nera, una musica del ghetto fatta da e per gente del ghetto. Cosa c’entrano, in effetti, i due autori, i quali si autodefiniscono yuppie “consumatissimi consumatori”, con questo tipo di musica cazzuta e nera chiamata rap?
Questo libro, scritto nel 1989, prova a spiegarlo. “Il rap spiegato ai bianchi” è una virtuosa analisi sulla scena rap americana degli anni ’80.
I due autori, affetti da una rara perspicacia, notano che il rap è campionamento, è elettronica, è tecnologia, è scratchare fino al parossismo, è erezione, è parola rappata, è rima, è vera poesia, è arte, ed è soprattutto ghetto, ossia esclusione sociale, disuguaglianza economica, povertà. Si rappa per uscire dal ghetto, si rappa per fare soldi soldi soldi, si rappa per consumare consumare consumare, si rappa per Esistere: qui e ora (la musica rap “non conosce il tempo futuro” ma solo il tempo presente).

I rappers non ci pensano nemmeno a ribellarsi al sistema capitalistico che li ha rinchiusi nel ghetto, al contrario lo venerano e lo pretendono. La scena rap rifiuta certi temi come la riconciliazione, la pace, la fede, la spiritualità, la speranza, cari alla tradizione musicale americana, e non solo. La scena rap disprezza “l’ipocrisia speranzoide” dei bianchi. L’ipocrisia, per esempio, dell’etica del lavoro; l’ipocrisia di cambiare il sistema che governa il mondo; l’ipocrisia di aver bisogno dell’Altro per essere felici, come ce la menano le love songs. Nella musica rap vi è una non troppo velata rivendicazione a consumare, i rappers reclamano il diritto al consumo. Per farcela il rapper ha solo bisogno di un foglio di carta e di un campionamento e di una comunità e di se stesso: una autoreferenzialità della madonna dove l’Io non è più il più lurido di tutti i pronomi.

Il firmamento di questa musica sta sia nella parola rappata che nel campionamento: il solo fatto di pensare di prendere in prestito delle basi musicali di altri senza autorizzazione e rapparci sopra, a me sembra un atto d’incredibile vivacità: il toccasana dei toccasana, direbbe il Gaddus. Con il campionamento l’opera d’arte altrui non è solo fruibile passivamente ma pure attivamente.

Consideriamo per un attimo quanto segue: Schoolly D, nella sua canzone che si chiama Signifying rapper, nella quale narra di un regolamento di conti, ha campionato un pezzo dei Led Zeppelin e loro invece di ringraziarlo lo hanno chiamato in giudizio per tutelare la loro motherfucker proprietà intellettuale.
Eppure, se non era per Schoolly D chi se li inculava più i Led Zeppelin?

Campionare fa rima con riutilizzare e non con rubare, campionare fa rima con avanguardia e non con plagiare.

Se putacaso leggerete questo libro, vi imbatterete nella crew dei De La Soul e non avrete il tempo di cagarvi sotto, perché muoverete il culo al ritmo della loro musica e sarete accolti nella casa del signore senza nessun preavviso, poiché, se la memoria non mi falla, Cristo ha detto più o meno così: “Battitori di tempo io vi riconosco.”
Quanto a me, sono stato una favola tra queste pagine.

Ogni maledetto lunedì su due

di Luca Palladino

“Che ci fosse una falla nel meccanismo delle aspettative ce l’avrebbe potuto suggerire il fatto che la nota cantante pop Natalie Imbruglia era compresa in quelle di ciascuno di noi. Ma chi ci pensava.”

 

La scorsa settimana, nell’ambito della Semaine de la culture italienne organizzata da degli studenti, sono andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm. Ci sono andato in qualità di consumatore, nonché di libraio.

Era di giovedì e c’era in programma un incontro sul fumetto con gli autori Manuele Fior e Zerocalcare, e ricordo chiaramente che mentre entravo alla Normale, mi sono chiesto che cosa significasse per me entrare alla Normale e intanto che me lo chiedevo, all’altezza del cortile di quella rinomata scuola, ho incontrato gente che conosco e che ho dovuto salutare e con la quale ho dovuto poi parlare, questo fatto mi ha liberato dalla questione circa cosa significasse per me entrare alla Normale; e se me lo chiedessi adesso, col senno di poi, che cosa per me allora significò entrare alla Normale, mi sentirei come quel centrocampista definito abulico dal telecronista, qualcosa come uno spaesamento.

Ad ogni modo, io ero andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm per vendere i libri di Zerocalcare e Manuele Fior, poiché ero stato invitato a farlo da una delle organizzatrici che di nome fa Louison. L’incontro era organizzato a mo’ d’intervista: la gentile Louison faceva domande sia all’uno che all’altro degli invitati.

L’intervista è andata più o meno così: mentre Fior si è messo a parlarre di colore caleidoscopico e di Freud e della sua vita vissuta cercando la sua vocazione e di Mattotti e di Moebius, sue fonti d’ispirazione, Zerocalcare, invece, si è prodigado in uno sforzo terribile per accettare di essere stato chiamato alla Normale a parlare di se stesso e della sua arte, che si chiama fumetto. Pian piano, però, Zerocalcare è riuscito a districarsi dalla sua introspezione e ad accettare di avere tanta gente che lo ascoltasse (la sala era gremita), e ha iniziato a parlare di locandine per concerti Punk, di collettività, di Rebibbia, del G8, del centro sociale La Strada, dei 4 ragazzi NO TAV arrestati ingiustamente e in isolamento (!); di Gipi che è un dio e del salone del libro di Torino che è l’orrore.

Secondo me il momento più significativo di questo incontro è stato quando è arrivato il turno delle domande del pubblico e in particolare quando una ragazza ha chiesto cosa significasse per gli intervistati disegnare. Manuele Fior ha risposto facendo l’apologia del suo lavoro e ha detto che è senz’altro meglio che fare il cameriere, invece Zerocalcare ha dichiarato papale papale che si è rotto il cazzo de disegnà.

Finito l’incontro, ebbro di fumetto, mi sono messo a camminare dalla rive gauche, dove è situata la Normale, alla rive droite, dove è situato il mio alloggio in affitto, sperando d’incontrare una ragazza che mi piace. Sono entrato nel mio appartamento da solo e ho subito realizzato che l’unico libro di Zerocalcare che avevo nel mio sacco, e ce lo avevo per via del fatto che non lo avevo venduto in quanto era rovinato, si chiama “Ogni maledetto lunedì su due”; cosicché l’ho iniziato a leggere.

Ho avuto, leggendo, la netta sensazione di non essere il solo a non averci un planning, e questo mi ha fatto pensare al solipsismo e alla sua crudele realtà. Zerocalcare mi ha reso partecipe del fatto che la fascia oraria delle Bermuda è un buco nero della nostra fessaggine, e che con gli auricolari si rimorchia facile, e che la forestale è manesca, e che ci abbiamo l’e-pi-glo-tti-de; e che la cantante pop Natalie Imbruglia è realmente esistita, e che è terribile quando l’unico rimasto disponibile a cui accollarla sei tu. Zerocalcare mi ha confidato che in qualche modo ci si arrangia e che si sta a galla finché non si fracica!

Lo stile di Zerocalcare è privo di orpelli e salamalecchi, è limpido, cristallino, trasparente, e sincero. Vi è una, io credo, glasnost di schiettezza nel suo stile. La matita di Zerocalcare non è la matita di un architetto biscazziere; la matita di Zerocalcare è nuda: francamente esprime, solennemente sviscera, portentosamente disegna. Tutto questo come lo dobbiamo chiamare se non core?

Lunga vita alle braccia a ciondoloni, e a Calcare e all’Armadillo e a Roma Est e alla BAO publishing.

 

Grandi ustionati

di Luca Palladino

 

“… se le cose non finissero mai io diventerei matto”

 

Mi trovavo nella corsia destra della Salerno/Reggio Calabria, direzione Reggio di Calabria, altezza Lauria Nord, la prima volta che ascoltai un audiolibro. Fu un’amica mia, nonostante le mie proteste, a inserire il compact disc nell’autoradio.
L’audiolibro che mi fu imposto, s’intitola Grandi ustionati ed è edito da Marcos y Marcos. La voce e la penna sono di Paolo Nori.
Mentreché lo stereo diffondeva la voce dello scrittore, ho subito notato la provenienza emiliana del suo accento (vien di Parma il Paolo Nori). Con l’accento di Parma, l’autore mi ha raccontato che il protagonista di questa storia si chiama Learco Ferrari, un omaccione che di mestiere fa lo scrittore. Al Learco gli è capitato un brutto incidente automobilistico nel quale si è gravemente ustionato; ed è per questo che è ricoverato nel reparto “Grandi Ustionati” dell’ospedale maggiore di Parma.
In prima persona Learco, cioè la voce di Paolo Nori, mi ha raccontato quello che gli è successo dentro e fuori il reparto. Mi ha raccontato che è possibile fare diecimila di urina, e che “in Giappone sono alto”; che l’ospedale è un posto farsesco e carnascialesco, e che l’uccello africano della famiglia dei fischioni si chiama fischiò. Learco mi ha detto che se ti operi in testa poi ti fa male la testa, e che il catetere non è giusto; che andare a casa è pur sempre bello, che dipende dai giorni, e che avere la seggiola e non avere il culo devi stare in piedi. Prima che la mia amica togliesse il cd dallo stereo infastidita dal fatto che non le rispondevo a chissà che cosa, Learco ha avuto il tempo di raccontarmi che le visioni eloquenti sono ben belle, che i fatti di mal di culo sono precisamente fatti di mal di culo, che le recensioni sono come le previsioni del tempo, non c’azzeccano mai; mi ha poi anche detto che Aleksandr Sergeevič Puškin è un grande poeta, e che anche il cavallo a quattro zampe poi inciampa. Learco, grazie al fatto che con un guizzo impedivo all’indice impaziente della mia amica di digitare il pulsante Eject, ha anche fatto in tempo a dirmi che Miasma le cose facili non le capisce, che i congiuntivi ogni tanto scappano, e che la paratassi non è una malattia; che pian piano tra un po’ ti dimentichi, che il muratore Gaspare Chiapponi è molto meglio di Giuseppe Saragat, che lo straniamento non ho capito che cazzo sia e che chissà che lavoro… ad un tratto, poi, la voce di Paolo Nori è scomparsa e mi è toccato ascoltare la mia amica, mi è toccato… puttana vacca troia!
Ora che ci penso, cioè ora che sono qui a scrivere questa recensione, l’inchiostro di Paolo Nori mi ha aiutato a schiarire l’orizzonte brumoso della mia pianura padana, nel senso che mi ha svelato che il modo di parlare degli abitanti di questa parte d’Italia non è poi così male, fa addirittura ridere. Mi sembra che Paolo Nori abbia fotografato la nostra lingua, l’abbia… come dire?… salvata, e sono tramonti mozzafiato: fa’ tè!

 

La scomparsa di Majorana

di Luca Palladino

 

«La scienza, come la poesia, si sa che sta a un passo dalla follia»

 

La scomparsa di Majorana, edito da Adelphi, è un fondamentale romanzo di Leonardo Sciascia, scrittore di animo e di sensibilità civica fuoriclasse.

Se si ha la bontà di aprire questo suo libro, ci si nutrirà della storia squisita, ed  esemplare a un tempo, del grande fisico italiano Ettore Majorana. Trovo sia necessario conoscere l’operato del Majorana, e quindi aprire questo libro, soprattutto perché, in questa epoca nostra dove latitano i modelli, un uomo che rinunzia alla sua vita per il bene di tutti, ossia rinunzia ad una sua probabilissima scoperta scientifica per il bene degli altri, cioè rinunzia al premio Nobel per l’interesse generale, credo che sia il più belvedere di tutti; non esistono delle robe che mozzano il fiato più di così.

Eppure pare che sia vissuto invano l’Ettore Majorana se si dà un’occhiata all’attualità: a noialtri, poveri sventurati, ci è toccato in sorte di vedere un governo che licenzia di licenziare. Se si pensa alle figuracce che occupano il discorso pubblico, è ancora più fondamentale conoscere l’impresa del Majorana, poiché chi viene a sapere delle sue gesta potrebbe, perché no?, riconoscersi e fondersi nel suo senso buono: un senso, a mio avviso, profondamente nobile.

Penso che, per noialtri lettori, sia stata una fortunaccia molto sfacciata che Leonardo Sciascia abbia seguito le tracce del Majorana, che abbia indagato sulla sua scomparsa, se no a quest’ora dovevamo credere alle fandonie dei notiziari, più devoti al sensazionalismo che alla verità. La storia di Ettore Majorana non è una spy story, come qualcuno ha voluto farci credere, bensì la storia di un “dramma religioso, e diremmo pascaliano”.

Majorana si va a collocare nel ristrettissimo novero di quei grandi uomini che hanno detto sì alla vita, di quelli che l’hanno maritata e mai tradita.

Con il suo tocco magistrale, Leonardo Sciascia ci racconta che il Majorana, siciliano, filosofo e scienziato, era di carattere scontroso e di aspetto saraceno, e che faceva cose bizzarre come appuntare sul suo pacchetto di sigarette teorie da premio Nobel e buttarle nel cestino subito dopo aver prelevato l’ultima sigaretta, e che, poi, aveva l’abitudine di starsene per conto proprio, ché pare non ci piacesse la compagnia degli altri. Del resto uomini che capiscono di fisica non possono avere a che fare con le cose del mondo: il meteo, il denaro, il tributo, il rotocalco.

Majorana era troppo impegnato a portare il suo sguardo altrove, ossia nel campo della fisica nucleare, per potersi occupare dell’attualità. E’ l’attualità, semmai, che si è occupata di lui. Majorana, a differenza dei tanto lodati ragazzi di via Panisperna, “portava” la scienza; per lui la scienza era “un fatto di natura”, “un segreto dentro di sé”: così ci riporta appassionatamente Leonardo Sciascia, il quale all’orecchio ci rivela che il Majorana aveva previsto tutto ed è solo perché in lui non c’era un solo “granello di egoismo” che Mussolini e Hitler non hanno avuto l’Atomica. Difatti, se Majorana avesse “tradito la vita”, è molto probabile che i nazifascisti avrebbero avuto la Bomba ben prima degli americani, i quali, da par loro, non ci han pensato due volte a sganciarla sugli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, ma questa è un’altra storia.

Ettore Majorana ha scelto la morte presunta, è scomparso dalla propria vita pur di non essere indotto in tentazione di svelare la cosa brutta che aveva visto la sua preziosa intelligenza. Se è vero che l’invisibilità è “essenza del mito”, allora Ettore Majorana è totalmente mitico.

 

 

 

L’Armata dei Sonnambuli

di Luca Palladino
DECLARATION DES DROITS DE L’HOMME ET DU CITOYEN Article 35. – Quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est, pour le peuple et pour chaque portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs.
L’Armata dei Sonnambuli, pubblicato da Giulio Einaudi editore, stampato su carta ecosostenibile e dedicato a Stefano Tassinari, è il nuovo componimento letterario della Wu Ming Foundation.
In questo loro romanzo, i Wu Ming ci contano com’è che andò nei cosiddetti anni del terrore, cioè gli anni che vanno dalla testa mozzata del Luigi Capeto alla controrivoluzione Thermidorienne, cioè pressappoco da quando si è smesso di utilizzare il pronome di cortesia, fino a quando lo si è reintrodotto.
I Wu Ming ci accompagnano nella Rivoluzione francese con il loro proverbiale sguardo obliquo, con il loro abituale “approccio sghembo”; ci contano i sanculotti del foborgo più rivoluzionario di Parigi, il Saint Antoine; ci raccontano il teatro d’avanguardia attraverso la bizzarra storia di un seguace di Goldoni; ci narrano il ruolo tanto  fondamentale quanto radicale delle donne, attraverso la tricoteuse Marie Nozière (non è un caso che la Rivoluzione inizia il suo deperimento quando i Giacobini chiudono i circoli rivoluzionari delle donne).
I Wu Ming ci espongono le vie del magnetismo animale, il mesmerismo, attraverso due modi opposti d’interpretarlo; ci riferiscono dell’operato convulso di Madama Ghigliottina; ci riportano di Marat, di Saint-Just, di Massimiliano Robespierre, l’avvocato di Arras, dagli illustri maneggioni considerato l’antesignano di tutti i tiranni; ci confidano che il terrore all’ordine del giorno fu preteso, negoddio, dal popolo. Insomma, è come se ci stringessero la mano e ci accompagnassero dentro un quadro di Hieronymus Bosch, c’est la folie quoi!I Wu Ming condiscono il loro romanzo di allegorie, di “anacronismi calcolati” e di radicalità. Finalmente l’aggettivo “radicale” viene demistificato, gli viene data, vivaddio, un’accezione positiva. Radicale è il personaggio del romanzo a cui mi sono più affezionato, e che difficilmente dimenticherò, il dottor Orphée D’Amblanc, un terapeuta del sonnambulismo, un deontologo della fraternité, un rivoluzionario avanti lettera. Egli porta se stesso e il lettore fino in fondo, jusqu’au bout : “Voi non siete come loro D’Amblanc. Voi avete capito. Es ist kein Geheimnis. Non c’è nessun segreto. Esiste soltanto il flusso. (…) Oggi avete visto un nobile magnetizzare einen Bauern, un contadino. Ma avete mai visto un contadino fare lo stesso a un nobile? Pensate a questo e cercate una via, più che una guida. Vi auguro di trovare eine autentische Revolution…”D’Amblanc è uno di quei rari signori che hanno cercato una via per sbloccare das Flut, – il flusso – di rimuovere l’intoppo, il blocco, l’ostacolo dentro di sé. Egli ha liberato la sua anima dall’impedimento, con lo stesso coraggio del poeta Majakowski, con lo stesso coraggio con cui un idraulico rimuove la merda convogliata nel sifone del vaso sanitario. Seguendo la via tracciata dal cittadino D’Amblanc è come se arrivassimo alla conclusione sorprendente che la lotta, dopotutto, paga.A mio avviso, la forza dei Wu Ming, di questo portentoso collettivo, sta nel riuscire ad incantare, quasi a magnetizzare, attraverso personaggi memorabili dalla voce perforante. Questo libro ci insegna ad insorgere dentro di noi, sbloccare il flusso, e fuori di noi, afferrare senza indugio lo “spirito di Marat” e insorgerlo nel buco di culo dei muschiatini.Ecco una buona notizia, ecco degli scrittori che non ci tradiranno. Gli incorruttibili.
Allons enfants!

La madonna dei Filosofi

di Luca Palladino

‹‹ Ma nel castello delli antichi Signori, dopo il veleno antico, il ferro, e i libri del male, erano dolci, nobili donne: ed era la bimba che tanto aveva sognato, e così amaramente pianto: e l’immagine benedicente di Lei, che a ognuno sovviene: e nell’ora di male e di guerra e nell’ora che ha morte, stanco, il nostro pensiero mortale.››

 

Butto gli occhi per le vie infinite dell’internet cercando uno spunto per scrivere qualcosa di sensato riguardo La Madonna dei filosofi di Carlo Emilio Gadda. D’un tratto, come per magia, incontro la scheda del racconto che vorrei recensire nel sito dedicato allo scrittore milanese. La scheda fa così: “Maria Ripamonti, ultima discendente di una famiglia nobile decaduta, promessa a un giovane partito volontario per la Prima Guerra Mondiale e poi disperso, non intende ascoltare i genitori che vorrebbero sposi l’avvocato Pertusella. L’ingegnere Cesare Baronfo, titolare di un azienda di rappresentanze ereditata dal padre, vittima di un’inguaribile nevrosi causata soprattutto dalla passata relazione con Emma Renzi che gli ha dato un figlio, decide di vendere l’azienda per dedicarsi alla filosofia. Maria Ripamonti e l’ingegnere Baronfo si incontrano e si frequentano. Ma, di ritorno da una gita in macchina, subiscono un agguato di Emma Renzi che ferisce gravemente l’ingegnere sparandogli con una rivoltella.”

Non incontravo una scheda dai tempi grigi della scuola. Questo incontro fortuito ha procurato in me una certa invidia: una scheda io non la sono mai riuscito a fare, la chiarezza è una qualità che, ahimè, non mi appartiene.

Tuttavia, mi sono chiesto se sia importante nel Gadda la trama, la scheda, il punto di partenza e il punto di arrivo, e le indicazioni: a dritta e a manca, di sù e di giù. In effetti, quand’anche ci si muove, la trama nel Gadda, e in particolare ne La Madonna dei filosofi, non mi sembra affatto la caratteristica principale. Forse è proprio per la mancanza di indicazioni che l’altra sera un tipo mi ha detto senza remore che Gadda è illeggibile. In questi tempi nostri in cui si usa il google maps persino per andare al cesso, non stupisce lo sfogo scomposto cui, mio malgrado, sono stato testimone.

A onor del vero, entrare in una frase del Gadda è come passeggiare in una strada a forte pendenza, in cima ci si arriva col fiato grosso, come al Castelletto: la bicocca dei Ripamonti. Ma è anche e soprattutto vero che entrare in una frase del Gadda e perdersi in essa è dire sì alla letteratura. Leggere il Gaddus è come entrare in un gomitolo dove non è necessario una bussola per orientarsi, è necessario esserci. Nel gomitolo gaddiano pullula la vita. Penso che uscire indenni da una frase del grande scrittore Carlo Emilio Gadda sia il massimo per un lettore. Una volta fuori dal garbuglio gaddiano, si ha come una netta percezione di benessere, un certo friccico nel cuore.

Ritornando per un momento alla scheda, le vite a pezzi di Maria Ripamonti e dell‘ingegnere Baronfo si incontrano quando ormai tutto pareva perduto (galeotta fu l’inserzione), tutto sembra andare per il verso giusto fino all’arrivo dell’ostacolo, della realtà, della rivoltella, che qui il Gadda chiama Emma Renzi: d’altronde un Renzi compare sempre a guastare le feste. Il racconto gaddiano termina con l’aspro commento di mademoiselle Delanay, un’amica “non eccessivamente francese” della famiglia Ripamonti. Qui il Gadda è come se lasciasse alla Delanay l’inchiostro, la penna e il calamaio e si facesse da parte. Cossicché mademoiselle Delanay ci dà la sua versione della disgraziata vicenda, si bourgeois; ebbene la mademoiselle si lascia andare a una sorta di sfogo di classe: elle avait du linge, la petite!, esclama mademoiselle Delanay. Un finale che è un ennesimo guizzo gaddiano.

Sì, a mio avviso il Gadda dovrebbero farlo santo come Agostino d’Ippona o come il natale, in ragione della sua sconfinata, anzi infinita generosità. Il Gadda ha il potere di unire il cielo della Italia: non è questo forse un miracolo?

Con il Gadda siamo tutti e soltanto italofoni: la mia matria è il pomidoro, è la pasta e fagioli; la mia matria è Carlo Emilio Gadda.