Più dentro che fuori

di Alessandra Banfi

«Era da qualche giorno che ci pensavo. Cioè, pensavo a cosa avrei provato nell’affrontare un viaggio, come un tempo, quando stavo bene e odiavo restarmene a casa per una giornata intera. Si fatica, sai, a ricordare una vita che non ti appartiene più. È come tentare di far tornare alla memoria pezzi di storia di un’altra persona.»




 

So cosa vuol dire.

Stare sulla soglia di casa e avvertire le vertigini solo per aver considerato la distanza tra il tuo corpo e l’auto che hai parcheggiato lì fuori. E devi raggiungerla, quell’auto. Devi farlo adesso. Devi pure darti una mossa perché sei in ritardo.
(Saranno trenta metri. Più o meno. Ma tu sai che non ce la farai. E che da qui a lì succederà qualcosa di spaventoso, tragico, traumatizzante).

Entrare in un negozio e uscire subito dopo perché il locale ti sembra troppo piccolo, troppo buio, troppo stretto e ti senti soffocare… o magari perché è troppo grande, troppo affollato, troppo pieno di quella luce artificiale che ti riempie gli occhi e ti sdoppia la vista.

Scegliere la strada più lunga, ma meno trafficata (altrimenti sai che brutto se ti piglia il panico proprio davanti al semaforo rosso e non puoi premere l’acceleratore per scappare e distrarti?).

Fare chilometri per trovare un supermercato piccolo-piccolo con corsie spaziose, ben illuminate (ma non troppo), comodo parcheggio, nessuna attesa alla cassa.

Più dentro che fuori. Lo sono da un pezzo, forse da sempre.
Le gambe inchiodate, la schiena irrigidita, la testa che fa scintille e a un tratto non c’è più. Esplode. O implode, che ne so, fa lo stesso. Diventa in ogni caso inutilizzabile. Pausa. Tempo scaduto. Fine corsa. Si accomodi, prego, vuole un bicchiere d’acqua?
Momenti da sceneggiatura thriller. Ho provato a ignorare queste sequenze dell’orrore. Ho provato a piangermi addosso. Poi ho cercato di raccontare. Di riderci sopra.
Ora dico vabbè, posso farcela anche così.

Con Più dentro che fuori di Alessandra Scagliola, edito da Morellini, ho riso tantissimo. Ho riso perché certe fobie-ossessioni-nevrosi possono essere drammaticamente comiche. Lo possono essere anche quando assomigliano a quelle che conosci tu (o forse lo sono proprio per questo).
Se ci penso bene, a voler seguire la logica, avrei dovuto provare una gran paura, aprendo un libro così. Invece ho letto una pagina e un’altra e un’altra ancora e ho riso di continuo, davvero. E quando rido tutto sembra più facile, attraversabile, innocuo.

(Un potere incredibile, quello che ti permette di suscitare una risata negli altri. E lei, l’autrice, riesce a farlo con scioltezza).

La mia è stata una risata liberatoria. Una leggerezza improvvisa. Una voglia sanissima di prendersi in giro, lasciar correre, buttarsi nelle cose che piacciono pensando ma sì, vada come vada. Ci provo.
(Ps: ho riso anche dopo. A libro chiuso, mentre spazzolavo i denti, infilavo la maglietta, legavo le stringhe delle scarpe).

Ma a un certo punto della storia le cose si sono fatte un po’ più serie, o almeno questo è quello che ho sentito nel mio stomaco, eppure non è venuto meno lo spirito divertente e brioso (e paranoico, questo sempre) del racconto. Che poi non poteva che andare così. Le paure fanno il loro dovere, non possono farti sorridere-ridere e via, tutti a sbellicarsi. Arriva sempre il momento in cui riprendono in mano la situazione e tu, obbediente, abbassi la testa e magari ti arrendi.

«Forse ho esagerato. Forse ho sopravvalutato le mie possibilità. Forse ho sperato che realizzare un sogno mi guarisse. Forse ho sognato troppo in grande.»

Su questo non ho ancora le idee chiare. Dipende dai giorni. Sognare in grande mi fa stare bene, ne sono sicura. Certo, poi prendo delle bastonate terribili se i miei sogni si perdono nel vento o affogano nell’acqua o boh. Spariscono e basta.
Ma provo sempre un gran sollievo quando scopro che le cose belle riescono a cavarsela e sopravvivere anche nelle circostanze più assurde e impensabili. Come questa storia. Che è la storia di Patrizia, ma può essere la storia di tanti altri. Patrizia in viaggio da Torino a Dublino per salvare un amico che vuole farla finita. Patrizia che ha tante paure ma che, forse, ha anche la giusta incoscienza per tentare di affrontarle. Patrizia può assomigliarci, ricordarci un’amica o una persona incontrata tanti anni fa. Quella che non capivi perché ti pareva “strana”, quella che aveva chissà cosa in testa, ma che ti ha lasciato comunque qualcosa di buono a cui aggrapparti.
A me le cose belle piace trovarle anche qui, nelle storie delle persone che incrocio per caso, un pomeriggio d’estate, dentro le pagine di un libro.

Fahrenheit 451

di Robespierre Capponi

«La maggior parte di noi non può correre dappertutto, parlare con chiunque, conoscere tutte le città del mondo, perché non ha il tempo, i soldi e neppure tanti amici. Le cose che cerca, Montag, sono nel mondo, ma il solo modo che l’uomo medio può conoscerle è leggendo un libro».

Se critichi devi avere una proposta se no tanto vale che non critichi affatto, mi han detto pochi giorni fa. Anche perché per proporre bisogna essere dei gran propositori, invece per criticare basta essere dei criticoni, han proseguito.

Mentre imbronciato me ne stavo seduto alla scrivania pensando alla veridicità o meno di questo assunto, ho afferrato, in un raro momento di lucidità, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, edito da Mondadori nella collana tascabile ed economica degli Oscar, e ho iniziato a sfogliarlo prima e leggerlo attentamente poi.

Fahrenheit 451, un classico della fantascienza, è una storia stramba ambientata in una società futura ultra tecnologica dove i pompieri non hanno più il compito di spegnere gli incendi, ma di appiccarli. In quest’epoca nuova il fuoco non è più usato per scaldarsi, ma per bruciare libri a 451 gradi della scala Fahrenheit. «È un buon lavoro. Lunedì bruci Lugones, mercoledì Maupassant, venerdì Verne, bruciali tutti e poi brucia le ceneri».

È questo il nostro slogan ufficiale! Nella nostra società, dove nessuno ha più tempo per gli altri, i libri sono una minaccia, poiché potrebbero rendere infelici le persone, potrebbero fargli credere a chissà cosa, oppure a una società diversa, magari immaginifica, perché no alternativa, dove è concessa persino la possibilità di criticare senza per questo essere obbligati a far proposte.

Nella nostra società, «l’aggettivo “intellettuale” si è trasformato nella parolaccia che meritava di essere».

I libri, da noi, li si può solo imparare a memoria o nascondere in soffitta, sono il nemico da dissolvere, da far sparire, da bruciare, come Giordano Bruno a Campo de’ Fiori; non deve rimanere neanche un atomo del pensiero che vanno diffondendo. Vogliamo solo essere felici in questa nostra società! Qui la felicità è di tutti, senza nessuna discriminazione, non è come piazza affari che se qualcuno è felice c’è da qualche parte un povero infelice. Qui da noi non esistono i segni + e – a tenere insieme tutto. C’è solo il +.

È per questo che bisogna essere tanto grati al pompiere Montag, il mio collega, il protagonista di tutta questa storia; bisogna essergli tanto grati perché brucia libri con dovizia, e con loro tutte le menzogne di cui sono farciti. D’altra parte, «quando avevamo tutti i libri di cui c’era bisogno, continuavamo a cercare la scogliera più alta da cui buttarci». O no? La vita normale, tranquilla e monotona del mio collega Montag, è esemplare, un esempio per tutti noi. Legato com’è al suo lavoro, fedele a sua moglie e soprattutto alla vita che conduce, una vita piena di sana routine, in cui è molto meglio ingollare patatine fritte davanti a un gigantesco schermo piatto a quattro pareti piuttosto che domandarsi il perché delle cose. In una parola, il mio collega Montag conduce una vita strafelice. La vita che noi tutti meritiamo. Non sia mai si faccia venire delle paturnie, dei ripensamenti o, dio non voglia, dei sensi di colpa: i libracci «erano solo uno dei ricettacoli in cui mettevamo le cose che avevamo paura di dimenticare», questo Montag lo sa, lo deve sapere.

Sono uscito da questo libro come si esce da una discoteca, tirando un forte sospiro di sollievo: fortunatamente solo nei libri di fantascienza esistono delle società così meschine.

Point Lenana

di Giovanni Di Prizito

‹‹[…] Eccoli, si abbracciano e iniziano la discesa, diretti alla vita che torna a scorrere, diretti a nuovi viaggi e nuove montagne da scalare, già consci che il mal d’Africa sarà sempre loro compagno.››

Mi trovavo sul Regionale Veloce 2276, il primo dei tre da Bologna ad Avigliana, cioè Val di Susa, il giorno in cui l’ho letto. Le sei ore e venti-tre minuti di viaggio mi sono parse fin dalla salita adatte alle cinquecento-cinquanta-due pagine più titoli di coda di Point Lenana, Giulio Einaudi Editore, 2013.

Point Lenana è un romanzo? No. Point Lenana è un saggio? Nemmeno. Point Lenana è una biografia? Non solo. ‹‹E dunque, che razza di libro è questo? […]›› Se lo sono chiesti gli autori, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara. Me lo sono chiesto pure io, subito, alla prima fermata, Anzola dell’Emilia. ‹‹La visione ci confermò che l’ibridazione di saggistica e narrativa era la chiave più adatta per raccontare la nostra storia. Il nostro libro sarebbe stato un “oggetto narrativo non-identificato”›› hanno chiarito loro, gli autori, riferendosi al documentario Doppio sogno all’Equatore di Carlo Alberto Pinelli, ‹‹[…] dalla prima all’ultima pagina in bilico tra inchiesta storica e non-fiction novel››. E dunque, che razza di storia è questa?

Kenya, 1943. Felice Benuzzi, soldato italiano – triestino d’origine – e prigioniero di guerra nel campo inglese di Nanyuki, vicino Nairobi, insieme a due altri prigionieri, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti, decide di evadere per scalare il Monte Kenya, arrivando dopo diciassette giorni sulla Punta Lenana. Compiuta l’impresa Felice e compagni tornano al campo e si riconsegnano agli inglesi. Prima nota. Sulla stessa punta i tre baldi giovani issano il beneamato tricolore. Seconda nota. Felice Benuzzi racconta questa storia in Fuga sul Kenya (1947), tradotto in inglese sotto il titolo di No Picnic on Mount Kenya, dove scrive della prigionia, dei giorni della fuga e del suo viscerale legame con la Montagna.

‹‹Ogni passo era una scoperta, un principio. Eravamo alla origine delle cose, quando i luoghi non avevano nome; ogni sguardo faceva scaturire dal nostro animo pensieri d’ammirazione, di gratitudine, di riverenza.››

Ebbene. Era chiara la natura, quanto meno sui generis, dell’accaduto. Altrettanto chiara era la mia voglia di capirci qualche cosa. Quindi. Chi era Felice Benuzzi? Un alpinista? Un irredentista? Un colonialista? Un fascista convinto? Un fascista pentito? Un italiano brava gente?

È successo all’altezza di Fiorenzuola, appena terminata la prima parte del libro, cioè quella dove gli autori presentano il lavoro, che ho cominciato a disseppellire la storia. Mentre il treno, storico in quanto tale, diventava macchina del tempo, io scavavo a mani nude, senza rendermi più nemmeno conto delle fermate, come se improvvisamente mi ci trovassi pure io in terra d’Africa, nel posto al sole a fare grande l’Italia, nel posto al sole a sognare l’Impero, nel posto al sole tra spose dodicenni – ‹‹¿dodici? ¡guarda che là è normale!›› – e maschi italici puro sangue.

Da Fiorenzuola in poi è stato tutto un assembramento di scalate, battaglie, guerre, conquiste, colonialismo, irredentismo, alpinismo, epoche e luoghi che Wu Ming 1 e Roberto Santachiara raccontano, con il loro ‹‹sguardo obliquo››, facendomele vedere per davvero le gesta italiche. In ordine cronologico. ‹‹1910-1930, Vienna, Trieste, la guerra, le montagne. 1930-1938, le montagne, i mali d’Africa, l’Impero. 1939-1946, la prigionia, l’armistizio, addio. 1946-1988, un homme considérable.››

Tra fermate assolate e matrimoni normali, sotto il fischio mai pago del treno mi sono ritrovato a sporcarmi le mani con il fango residuo del bel paese, a fare a pugni con le ‹‹tossine della retorica ufficiale››, a leggere di pulizie etniche, campi di concentramento, uso massiccio dei gas contro i civili, violazione di ogni diritto e convenzione internazionale, sempre nel posto al sole. Mi sono ritrovato, fermo a Torino Porta Nuova, convinto di stare a Tripoli, ma anche Adua, Addis Abeba, Misurata e Bengasi.

‹‹Il 23 dicembre, gli italiani hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Tacazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violazioni fatte dall’Italia ai suoi impegni internazionali.›› [Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, telegramma inviato alla Società delle Nazioni, 1935]

Più mi avvicinavo alla Val di Susa, più mi si parava dinnanzi, sbattuta per intero sotto agli occhi. Odorava di terra letamata appena bagnata, sterco, carne andata a male, ‹‹fieno ammuffito››, sangue fresco e gas di scarico. Quella storia, tutta italica, odorava di marcio. Quella storia faceva a pugni con tutte le altre storie.

‹‹Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopi si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerriglieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi.›› [Generale Colombini sulla battaglia dell’Amba Aradam, 10-19 febbraio 1936]

Mentre quella di Felice Benuzzi, ormai all’aria aperta, appariva chiara. Uno dei tanti (quanti?) che tacitamente (quanto volutamente?) avevano appoggiato quel regime e da cui, altrettanto tacitamente, se ne erano allontanati, cercando la redenzione, il riscatto e forse la libertà, nella Montagna. Quindi. Felice Benuzzi, futuro ‹‹homme considérable›› del dopo guerra, futuro Console Generale a Berlino e poi Ambasciatore in terra d’Uruguay, chi è stato? Un alpinista? Un colonialista? Un irredentista? Un fascista convinto? Un fascista pentito? Un italiano brava gente? Un poco di tutto? Si può essere un poco di tutto?

Arrivato a destinazione, pettinato e in orario, la Valle mi ha abbracciato. Nei giorni successivi mi sono messo alla ricerca di foto, immagini e documenti su Felice Benuzzi. Volevo andare oltre i titoli di coda, volevo capirci qualche cosa di più, volevo continuare a viaggiare. Sentivo la necessità, che era anche urgenza, di proseguire la lettura, come se la storia non fosse terminata, come se certi libri non terminassero con le pagine di carta. Ecco, Point Lenana fa proprio così, non finisce mai.

Un’infanzia

di Alessandra Banfi

“Il mio primo ricordo risale a dieci anni prima che nascessi, è di un posto dove non sono mai stato, e riguarda mio papà, che non ho mai conosciuto.”

Comprai questo libro a una bancarella dell’usato, credo. Non ricordo dove e nemmeno quando, forse ero in vacanza, è passato del tempo. Non lo so, non lo so proprio, e non so nemmeno perché lo scelsi. Di certo in quegli anni preferivo altre letture, altre storie, e infatti Un’infanzia ha vagato da un ripiano all’altro della libreria di casa senza mai essere sfogliato.
In ogni caso adesso è sulla mia scrivania, in cima a una pila di agendine, quaderni e fogli scarabocchiati, e non è più lo stesso libro di qualche giorno fa, posso giurarlo. Le pagine piene di pieghe (sì, ho l’abitudine di piegare l’angolo in alto delle mie pagine preferite per ritrovarle con facilità) lo gonfiano e gli impediscono di stare ben chiuso. La copertina è un po’ sollevata e ha il profumo della crema che spalmo sulle mani prima di mettermi a leggere.
Quando un libro mi piace lo sento invecchiare tra le dita, riesco a trasformarlo in un oggetto dall’aspetto trasandato in poche ore. Forse non sono una lettrice rispettosa. Ma io un libro così lo mangerei anche. Mangerei i paesaggi, gli odori, le persone, i colori e i rumori che ci ho trovato dentro. I primi sei anni di vita di Harry Crews.
I raccolti andati al diavolo. La stufa Home Comfort numero 8. Pete Fretch. La famiglia di Willalee Bookatee. Il Libro dei Desideri. Gli occhi dell’opossum seppelliti in modo che guardino in su. Le sbronze pesanti da far arrivare l’odore di whiskey fino a qui. L’Ebreo con i capelli lunghi e la barba bianco sporco. I racconti di Zietta e la stanza degli uccelli. Il guaritore che recita i versetti di Ezechiele. Il volo nel calderone del maiale. Hollis Toomey che parla al fuoco. La fabbrica di sigari.
La Georgia del Sud tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. Prima e dopo, sfondo e cornice. Magia e miseria, famiglie spezzate che trovano sempre il modo di ricominciare.

“Il mondo che circondava la mia gente aveva un margine così ristretto per gli errori e la malasorte che quando una cosa andava storta, si tirava sempre dietro qualcos’altro. Era un mondo in cui per sopravvivere bisognava fare appello al coraggio della disperazione, un coraggio rafforzato dalla mancanza di alternative.”

A me queste storie fanno l’effetto di uno schiaffo in piena faccia. Mi lasciano un istante intontita e poi mi riportano con i piedi per terra. Come adesso. Adesso che l’estate è appena cominciata e già me la sento scappare di mano.
Forse è per questo che Un’infanzia è finito sulla mia scrivania solo in questo momento. Perché non ne avevo bisogno prima. Ne ho bisogno ora.

“In campagna non esisteva la carità. La gente si passava le cose senza tante cerimonie, i piselli perché non potevano venderli o ce n’erano troppi, e lo stesso i pomodori, il mais, il latte, e a volte addirittura un pezzo di carne, perché si sarebbe guastato prima di riuscire a mangiarlo. Ma non lo si faceva in un’ottica dello scambio. Né lo si chiamava elemosina o dono. Semplicemente, rientrava nell’ordine naturale delle cose per gente il cui problema essenziale, il primo e l’ultimo, era la sopravvivenza”.

Da sempre, chi non ha niente mi pare che capisca tutto meglio di me. Che poi non ho molto, ma forse per riuscire a scrivere cose così sincere dovrei avere ancora meno.

Storia di un boxeur latino

di Giovanni Di Prizito

‹‹La vita è una milonga, bisogna saperla ballare››

 

L’ho suonata per un lustro esatto, la batteria. Poi, come certe volte succede, gli amori si perdono, e fiorente maggiorenne lasciai perdere. Tra dubbi di vita, metrature risicate e traslochi ricorrenti non c’entrava mai. I ritmi: mi piacevano quelli del Sud, lenti ma incalzanti, un po’ giusti un po’ sbagliati, ‹‹sempre un poco in ritardo, sempre in levare.››

Ebbene. Leggendo Storia di un boxeur latino di Gianni Minà, Edizioni Minimum Fax, 2020, scritto con la complicità di Fabio Stassi, mi risiedo sullo stesso sgabello di quegli anni, riacchiappo le bacchette e rimetto il piede destro sul pedale della grancassa e quello sinistro al charleston. Mi rimetto a suonare insomma, insieme a tutta la banda.

In ordine sparso. Vinicius de Moraes, Toquinho, Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano, Louis Sepúlveda, Joan Manuel Serrat, Dizzy Gillespie, Sergio Leone, Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Adriano Celentano, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Monica Vitti, Isabella Rossellini, Federico Fellini, Emil Zátopek, il Subcomandante Marcos, Aleida Guevara March…

A ritmo di samba e bossa nova insieme a loro mi faccio il giro del mondo, ‹‹New York, Tokyo, San Francisco, Philadelphia, Pittsburgh, Montevideo, L’Avana, Salvador de Bahia, Buenos Aires, Rio De Janeiro, Città del Messico, Taiwan, Singapore…››, mentre Gianni Minà, con «l’irresistibile faccia tosta dei timidi che non arretrano di fronte a niente», mi racconta le storie. Sessant’anni di storie che sembrano romanzi, che sembrano inventate. Invece è tutto vero. E forse un giro non ci basta.

Gianni Minà mi racconta la notte del match del secolo a Kinshasa, nel 1974, quando ‹‹George Foreman era arrivato con un cane lupo al guinzaglio […]›› e ‹‹Muhammad Ali invece aveva fatto venire un bonghista dagli Stati Uniti […] per essere accolto con i ritmi della sua gente››. Aggiunge che ‹‹ogni tanto Ali abbracciava l’avversario e incitava la gente a urlare “Ali bomaye. Ali bomaye (Ali uccidilo. Ali uccidilo)”››. ‹‹Quella sera››, continua lui, ‹‹confesso di essermi sentito all’apice della mia carriera. […] Qualsiasi giornalista di qualunque paese avrebbe desiderato essere dentro lo spogliatoio di Ali […] Ma lì dentro, al centro di quella sfolgorante notte africana, c’ero solo io, con la mia mini troupe d’assalto››. C’era sempre lui, il 12 settembre 1979, a Città del Messico, dove Pietro Mennea, ‹‹il ragazzo di Barletta››, riuscì ‹‹con il leggendario tempo di 19’’72›› a battere ‹‹il record del suo idolo Tommie Smith›› sui 200 metri. Mi racconta poi l’intervista ‹‹storica›› del 1987 a L’Avana con Fidel Castro, sedici ore di fila. Subito gli chiese: ‹‹Comandante, per caso vuole conoscere prima le domande, come chiedono di solito i capi di stato?››. ‹‹Minà, ma con la storia che abbiamo lei pensa che noi possiamo aver paura delle parole?›› gli rispose Fidel Castro. E di quella volta a Buenos Aires, nel 1977, in pieno dramma desaparecidos, quando durante una conferenza in mondovisione, facendo calare il gelo nella sala, all’ammiraglio Lacoste disse: ‹‹Sono Gianni Minà, della Rai, siamo qui per un documentario musicale, ma siamo stati informati che ci sono dei problemi, che in questa città, da un po’ di tempo, sparisce la gente. È una notizia attendibile?››. E lui, l’ammiraglio, secco gli rispose: ‹‹Lei è male informato››. ‹‹Gianni, te ne devi andare›› gli aveva detto poi Giangiacomo Foà, portavoce dei giornalisti inviati in Argentina, ‹‹[…] il rischio è molto più serio di quanto pensi, qui la gente sparisce davvero […]››.

Poi mi mostra il ritratto che, nel 1975, sempre a Città del Messico, gli fece David Alfaro Siqueiros. ‹‹Gli occhi li ha fatti in un attimo. Così. Ssssc. Ha imbevuto il pennello e lo ha portato sul foglio. Quando lo ha tolto, erano perfettamente tondi. Mi corresse solo i baffi, tirandoli un po’ in su, ai lati. […]››, e alla fine mi fa vedere una ‹‹[…] fotografia fatta a Roma nel 1982, a Trastevere, davanti al ristorante Checco er Carrettiere […]››. Mi dice che quella fotografia ‹‹è la summa di quello che è stato il suo modo di essere, del piacere che dà l’amicizia e della possibilità di riunire una sera d’estate […] cinque amici avidi di curiosità per ascoltare i racconti del più affascinante tra loro […]››. Io la guardo meglio, e un po’ fatico a crederci. Ma, non posso che ripeterlo un’altra volta, è tutto vero. Gabriel García Márquez, Sergio Leone, Robert De Niro e lui. Al centro, Muhammad Ali, The Greatest. I racconti erano i suoi.

Una dopo l’altra, in un vortice di emotività e nostalgia, Gianni Minà mi racconta le storie. I viaggi. ‹‹Sempre, in qualsiasi posto mi sia trovato, sono partito per un altro. Curiosità o inquietudine, non lo so. È stato il mio modo di lavorare, o di vivere. Abbandonare le cose poco prima che finiscano e correre dove sta per nascere qualcosa di più interessante››. Mentre io ho come l’impressione di leggere un romanzo d’avventura, racconti epici e spettacolari che divoro a ritmo di samba e bossanova.

Inarrestabile, il piede destro batte sul pedale della grancassa, il sinistro serra il charleston e la bacchetta picchia duro sul bordo del rullante. ‹‹Sempre un poco in ritardo, sempre in levare››. Eccolo, finalmente. L’amore è tornato.

Perfidia

di Robespierre Capponi

«Ha scoperto la vera Quinta Colonna. E non è quello che pensa la gente».

Chi è l’uomo bianco con il pullover viola? È quello che ci si chiede nelle 882 pagine di Perfidia di James Ellroy, il primo libro del nuovo quartet dedicato a Los Angeles, pubblicato da Einaudi editore.

Il dottore della scientifica Hideo Ashida, il sergente Dudley Liam Smith, il capitano “whiskey” Bill Parker, ed io ci stiamo rompendo la testa a forza di chiedercelo: chi è l’uomo bianco con il pullover viola?

Il suono di una moltitudine di relazioni cellulose aleggia ancora nell’etere, lo si può avvertire anche tra queste pagine digitali, è sufficiente appiccicare l’orecchio allo schermo come sto facendo io in questo momento: sì, sento l’eco del crepitio di sinapsi, sono ancora lì a bisbigliare del come e del quando e del perché.

Il contesto dove ci troviamo è presto detto: Los Angeles. È il 1941, tempo di guerra: al di là dell’Oceano Atlantico, l’Europa è quasi tutta in mano ai nazifascisti, a resistere sono rimasti solo gli inglesi e i comunisti di ogni latitudine. I giapponesi, invece, hanno avuto la stravagante idea di attaccarci a Pearl Harbor, affondando la flotta del Pacifico. Praticamente un suicidio: gli faremo il culo!

A proposito di suicidio, proprio il giorno prima dell’attacco, cioè il 6 dicembre 1941, una intera famiglia di giapponesi è stata trovata morta nel proprio appartamento, pare per via di un suicidio rituale, un seppuku e qualcosa, una di quelle pratiche strane dei giappi. I corpi senza vita sono stati ritrovati sventrati uno accanto all’altro sul pavimento del soggiono. Di fianco ai corpi senza più budella, quattro spade sporche di sangue: è davvero un suicidio collettivo o un crimine? Grazie ad alcune analisi della scientifica che non sto qui a spiegare, propendiamo per la seconda ipotesi. Il capo della polizia Jack Horral vuole dare molto spazio a questo caso poiché i giapponesi, dopo l’attacco infame a Pearl Harbor, sono nell’occhio del ciclone. In più Jack vuole che si trovi un assassino giappo, vuole che lo si dipinga come un mostro, per poi darlo in pasto all’opinione pubblica collaborazionista, e lo vuole entro capodanno.

Non passerà molto tempo che interneremo i cittadini americani di origine giapponese per tutto il periodo del conflitto mondiale; ed entreremo in guerra a fianco degli alleati contro il famigerato Asse. A dir la verità, avremmo preferito allearci a Hitler e al suo compare Mussolini piuttosto che ai comunisti, poiché il nostro grande nemico sono i rossi, non certo i nazifascisti, anche se hanno un po’ esagerato con quei giudei…

Zompo un attimo fuori dal libro, cioè dal 1941, per far ritorno all’attualità, cioè il presente di fine pandemia e di lotte globali contro il razzismo e soprattutto contro la violenza della polizia. Pochi giorni fa mi è venuta voglia di scrivere “ACAB” sul muro e l’ho fatto (volevo scrivere il più criptico “1312”, ma poi ho optato per la chiarezza). Ora che ci penso mi fa un po’ specie aver avuto come compagni di avventura dei poliziotti (peraltro senza scrupoli), ma la letteratura spesso conduce dove non te lo saresti mai aspettato, ad apprezzare scrittori conservatori o a identificarti persino con un sergente razzista della polizia di Los Angeles, chiamato Dudley Liam Smith per il quale io sono solo un wop, un guappo. Il Dudster non contiene neppure un atomo di sensibilità, eppure mi ha fatto venire voglia di diventare un suo protetto, di sapere che effetto fa ammazzare un giappo a bruciapelo, di riempirmi di benzedrine e altre cose che non si possono dire, tipo andare a letto con Bette Davis. Mi è venuta voglia anche di provare l’oppio nella pagoda di Zio Ace, per evadere dalle inutili tribolazioni quotidiane, dal malvagio passato presente futuro, e da me stesso. Mi è venuta anche voglia di fare soldi in modo illecito, solo che non so come si fa. Fottesega di quello che vanno dicendo i Proverbi 3, 31: «Non invidiare l’uomo violento e non imitare affatto la sua condotta».

No, non so chi sia l’uomo bianco con il pullover viola, e neppure m’interessa, cioè sti cazzi, io sto con Bette Davis. Ho appena dato un bigliettone da 100 dollari al cameriere in livrea. C’è anche John Wayne nella sala, ha baciato il braccio di Bette e io ho preso in mano la pistola per ficcargli una pallottola nelle cervella, non so neanche perché non l’ho fatto. Poi Bette mi ha spezzato il cuore buttandomi addosso queste parole qui: «Come osi pensare che io e te siamo più di una triviale nota a piè di pagina di questo orribile periodo»… Ho fatto un casino.

Ci sarebbero un sacco di altre cose da dire su questo libro molto denso, per esempio cosa avrebbe da dire su tutta questa storia Kay Lake, la ragazza cazzuta della prateria di Sioux Falls, nel South Dakota, scappata a Los Angeles da un «destino insufficiente», ma questo lo lascio scoprire al magnifico lettore.

Vorrei concludere dicendo che secondo me leggere l’Ellroy di Perfidia è molto più appassionante di qualsiasi serie del cazzo su Netflix (vabbè, a parte Better call Saul).
Vorrei anche ringraziare James Ellroy, grande scrittore, per avermi fatto compagnia in questa strana pandemia, ma soprattutto vorrei ringraziare chi mi ha prestato questo libro, cioè una mia amica di Parigi, che però adesso si è trasferita a Lione. Ora che ci penso, ho rischiato una multa salata per prendere possesso di Perfidia, ho varcato le cosiddette colonne d’Ercole della pandemia, cioè un chilometro senza autocertificazione, per averlo; ho infranto la legge e ne è valsa davvero la pena.

Momenti straordinari con applausi finti

di Sara Maria Morganti

 

Insomma alla fine gli amici del blog non mi hanno insultata. Anzi, mi hanno detto che a loro la recensione non era dispiaciuta e che se ne avevo un’altra pronta potevo anche mandargliela. Figuriamoci, un’altra recensione, già pronta poi. Proprio no.

Poi però dentro di me mi son detta: bella questa storia che faccio le recensioni come mi pare e gli amici mi danno uno spazio per condividerle, bella questa storia. Tanto che un po’ mi è venuta voglia di provare a scriverne un’altra, di recensione.

E allora eccomi qui, con il libro perfetto tra le mani, appena finito tutto d’un fiato, così che ancora non ho dimenticato niente. Grande, bianco, con una faccia tratteggiata in copertina, che ha un punto interrogativo mimetizzato fra la barba ed è senza la bocca, forse perché nascosta dal microfono, chi lo sa. E il titolo scritto a mano: Momenti straordinari con applausi finti. Io pensavo che quella faccia era proprio quella di Gipi, ma poi ho letto il libro e ho scoperto che invece era quella di Silvano Landi, che però io sospetto assomigli molto a Gipi. Silvano è il protagonista di questa storia illustrata, ma forse sarebbe più giusto dire che il protagonista è l’interno del suo cervello, pieno di cosmonauti, soldati, uomini primitivi, bambini luminosi, ma anche nero, fango, pornografia e mamme morenti.

Io personalmente penso che ogni tavola di questo albo a fumetti sia un viaggio, ma che dico ogni tavola, ogni frame. Ho studiato un po’ prima di scrivere questa recensione, spero che le parole siano giuste. Ma insomma, quello che intendo dire è che ogni colore di ogni disegno sembra il primo colore mai visto nella vita. Roba che tu guardi il naso dell’uomo primitivo e dici “boh, io non lo so se l’ho mai visto un rosso così”, oppure guardi l’acqua e dici “eccolo! il brodo primordiale!” E questa cosa un po’ ti commuove per forza, perché è troppo bella da vedere. E oltre a questo c’è la storia, che è come quelle storie che piacciono tanto a me, dove non succede nulla. Silvano deve fare le sue serate tipo stand-up comedy ma se le dimentica perché pensa sempre alla madre che sta morendo e al fatto che non è abbastanza dispiaciuto per questo, anche se io credo che sia proprio il contrario. Anzi, ne sono sicura, perché io il dolore di Silvano l’ho sentito fortissimo, per esempio a pagina 83, in basso a sinistra. Lì c’è un piccolo riquadro dov’è disegnata la madre al mare, sotto l’ombrellone. I lineamenti non ci sono, ma si vedono bene i capelli corti, gli occhiali da sole, e il pezzo sopra del costume. E tutti i colori sono perfetti, come quelli di un ricordo marino un po’ sbiadito. Poi ci sono tre piccoli riquadri, con scritte dentro queste parole: nel primo “SCOPRIRTI”; nel secondo “ANCHE ALL’OMBRA DELL’OMBRA”; nel terzo “ANCHE NEL GIALLO”.

Poi se uno lo legge tutto il fumetto questo riquadro diventa più comprensibile di così, ve lo assicuro, ma a me mi ha colpito così tanto che ve lo volevo descrivere da solo. Penso che ci sia molta perfezione lì dentro.

Io devo confessare che Gipi lo conoscevo già, perché avevo letto anche LMVDM e La terra dei figli, e anche se non mi ricordo bene cosa succedeva, mi ricordo che mi erano piaciuti parecchio. Quindi forse sono partita che ero già felice di leggere l’ultimo fumetto di Gipi, ma sono convinta che anche se non avessi mai sentito parlare di lui prima in vita mia né dopo mai più, questo fumetto mi avrebbe comunque lasciata con le lacrime negli occhi come infatti ha fatto.

Dunque qui finisco, e ringrazio Gipi e Rita che me lo ha prestato.

Con in bocca il sapore del mondo

di Giovanni Di Prizito

‹‹Le parole hanno la mobilità di una marionetta, un’ossatura invisibile di legno e di fil di ferro, come quella che sostiene i pupi siciliani. È tutto un affare di chiodi e cordicelle.››

Succede che, certe volte, le parole sono come le medicine. E come certe medicine, più ne prendi più ti senti meglio. Succede che, con l’occhio clinico, è necessario adocchiare quelle giuste, di parole. Quelle indicate, quelle adatte al malanno insomma. Questo succede.

Questo mi è successo in una fase precaria dell’animo non più tardi dell’isolamento passato. Una di quelle fasi in cui non sai bene stare al mondo. Una di quella fasi che è meglio se non ti succede, specialmente nell’appartamento dentro all’isolamento – sai che paturnie! Comunque alla fine le ho adocchiate, quelle giuste. E con le parole mi ci sono curato.

Allo stesso modo delle medicine. Più ne prendevo, più non mi volevo fermare, per nessuna ragione di questo mondo, nemmeno per quella cosa che mi aveva fatto isolare da tutto e sopra a cui tutti, ma proprio tutti, parlavano e scrivevano –  piripì parapà piripì parapà. No. Per nessuna ragione di questo mondo avrei voluto smettere di assumerle. Altro che guanti, mascherine e pazienti zero.

Dieci. Dieci dichiarazioni d’amore che Fabio Stassi – Primario della Parola e autore di Con in bocca il sapore del mondo, Edizioni Minimum Fax 2018 – somministra a piccole ma grandi dosi, una o tutte le volte del giorno, prima, durante e dopo i pasti ai suoi pazienti immaginari ma anche reali. Fabio Stassi fa ri-vivere dieci Poeti del Novecento immaginandoli, facendoli immaginare, in prima persona a raccontare la loro storia, le loro ossessioni, i loro desideri, le loro allegrie e i loro dolori. Fabio Stassi, dentro all’isolamento, mi dava la possibilità di guarire. E finalmente di parlarci, con i Poeti.

‹‹[…] Gli uomini che prendono sul serio gli altri mi hanno sempre fatto compassione, quelli che prendono sul serio se stessi mi facevano sganasciare›› mi diceva Aldo Palazzeschi. E allora cominciavo a capire che forse il male dell’anima dipendeva proprio da questo, dal non riuscirne a ridere. Era questo che non mi era mai riuscito di fare, ridere di me medesimo. ‹‹[…] Le parole hanno la mobilità di una marionetta, un’ossatura invisibile di legno e di fil di ferro, come quella che sostiene i pupi siciliani. È tutto un affare di chiodi e cordicelle›› aggiungeva Salvatore Quasimodo. Ebbene, mi sentivo sostenuto anche io, mi sentivo come un pupo siciliano.

Come un pupo siciliano mettevo in scena la mia storia, la mia tragedia. I Poeti mi manovravano mentre io mi abbandonavo alle loro premure e alle loro cordicelle. E le parole agivano, dentro di me, mentre Guido Gozzano mi raccontava dei suoi turbamenti, che erano anche i miei. ‹‹Il mio problema è sempre stata la gravità, questo sentirmi sempre sbagliato, fuori stagione, fuori norma, fuori misura. Troppo pesante per le frivolezze del mondo e dei tempi, e troppo leggero per la realtà.››

Correndo, senza pararmi nemmeno per il servizio igienico, arrivai fino alle ultime. Quelle della Poetessa, quelle sui matti. ‹‹[…] Al manicomio›› diceva lei, ‹‹si è tutti impreparati. […] Fu solo quando mi ci trovai che credo di essere impazzita per davvero di terrore […] Per i matti non c’è comprensione […] Perché la follia, per gli occhi del mondo, è una mala metafora, non una malattia. È una metafora della colpa. Una responsabilità. […]››

Tutto, intorno a me, possedeva qualcosa che non la so dire, qualcosa che non la so spiegare con il rumore dei tasti. Qualcosa di assai. Mi sentivo addosso come una stranizza d’amuri. Quelle parole continuavano a muoversi, una per una mi sostenevano e mi facevano guarire, una per una si prendevano cura di me. Mentre io, anche se le pagine erano finite, continuai a parlarci. Con i Poeti.

La rivoluzione della luna

di Robespierre Capponi

‹‹Finalmenti ‘ncontrava a ‘na fìmmina che, oltri che ad aviri ‘n sommo grado tutti l’attributi fimminini, possidiva macari un gran paro di cabasisi.››

Circondato da quattro mura, ho tra le mani un libro di Camilleri che s’intitola La rivoluzione della luna. Dentro questo libro, uscito nell’anno del signore 2013 per Sellerio editore Palermo, è custodita una storia che sembra inventata di sana pianta ma che invece è realmente accaduta. Camilleri conta che nel milli e seicento e sittantasetti la Sicilia fu governata per 28 giorni da una donna! Nel 1677 Eleonora di Mora fu chiamata a governare la Sicilia dalla morte improvvisa del Viciré, suo marito. Ventotto giorni (!), lo stesso tempo che ci impiega la luna a fare il giro dello zodiaco, le bastarono a portare la giustizia in una terra di ’ngiustizia, di approfitto, di pripotenza e di arbitrio. Ci volle una donna per calmierare il prezzo del pane!

D’emblée penso al concetto di casa, e cioè se sia diventata una prigione in questi tempi di pandemia qui o se lo è sempre stata. Mentre il mio ragionamento è diretto chissà dove, Camilleri mi assesta un certo scapaccione come a voler riprendersi l’attenzione. Mi ritrovo l’agenda piena di rendez-vous con il malaffare, l’innamoramento del potere, la difficile condizione delle donne; e il “nefando crimine”. Non ho neanche il tempo di dire “che fortuna!”, che mi trovo ad averci appuntamento anche con la giustizia sociale e il casto amore. O sì! Tale e quale a quello che prova il protomedico Serafino nei confronti di donna Eleonora, descritta come solo Andrea Camilleri è in grado di fare, ossia con la sua lingua terragna, fatta di parole che prendono forma fino a diventare nitide, adamantine, dove non c’è neanche bisogno del vocabolario figurato per figurarsele.
Per lo scrittore di Porto Empedocle donna Eleonora è di una “biddrizza da fari spavento”… Può sembrar strano ma mi sento addosso i suoi occhi (“e che occhi”). La descrizione di Camilleri è così potente che ho la netta sensazione che donna Eleonora mi appaia, perciò mi ritrovo, pieno di rossore e sgomento, ad allungare la mano come se fossi un cristiano assillato dalla prova.

La pregnanza della lingua di Camilleri, che per intanto ha preso tutta la mia attenzione, si manifesta in modo chiaro quando lo scrittore mi narra di un certo Vescovo che abusa dei minori. Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori non è semplicemente un Vescovo che abusa dei minori, nossignore! Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori è un Vescovo che lo mette ‘n culo ai picciliddri! Qui è come se le parole di Camilleri smascherassero il Vescovo in tutta la sua nefandezza. Lo scrittore siciliano si prende la responsabilità di farmi vedere l’orrore, si catafotte nel profondo della mia ripugnanza. Alza il sipario della schifezza, dove essa fete così tanto da togliere l’onore. Con le sue parole ineguagliabili Camilleri si carica di coraggio e ci dà un pugno al Vescovo, come se fosse un Papa a cui hanno offeso la madre; le sue parole leniscono il mio stomaco malandato e vendicano tutti i soprusi del mondo.

Andrea Camilleri ha questo potere di rendere vive le parole, è per questo che non può morire mai. Con lui il significato non è mai stato così significante, con lui le parole sono limpide come il Canal Grande ai tempi del covid 19. Camilleri è letteratura, e fa lo stesso effetto che i semi di finocchio fanno a una tipa che ho conosciuto: stra-bene! Adesso io vorrei che mi raccontasse un’altra storia. Un’altra storia ancora. Un’altra storia che mi faccia evadere da questa prigione chiamata casa. Leggere Camilleri è panacea di tutti i mali.

 

 

Fiesta

di Giovanni Di Prizito

‹‹Oh, Jake›› Brett disse. ‹‹Noi due saremmo stati così bene assieme.››           

‹‹Già›› dissi io ‹‹non è bello pensare così?››

Qualche estate fa mi trovavo a Pamplona in calle Estafeta, la via dell’encierro, quella dove corrono i tori prima di arrivare nell’arena e se non stai attento ti becchi pure qualche incornata. E le corna, si sa, non fanno mai bene. Camminando, beatamente accoppiato, cercavo l’odore del primo mattino.

Un mese prima, passeggiando sotto ai portici di Strada Maggiore, mi parai dinnanzi agli scaffali dell’usato della Libreria Ceccherelli e dal mucchio tirai fuori Fiesta, titolo originale The Sun also Rises. ‹‹La prima dichiarazione d’amore di Hemingway alla Spagna›› c’era scritto sulla copertina. Il binomio mi eccitava e l’odore della carta ingiallita mi provocò un brivido di piacere.

Camminando ancora un poco da calle Estafeta presi le viuzze del Casco Viejo fintanto che arrivai in Plaza del Castillo. Subito, senza perdere tempo, entrai dentro al Café Iruña, quello della storia. Quello dove Brett, anche lei senza perdere tempo, aveva abbordato il giovane torero Pedro Romero: ‹‹Dio! […] mi sento tanto vacca.›› Quello dove Jacob – detto Jake – Barnes e il resto della ghenga si sedevano sulle ‹‹comode poltrone di vimini›› e si mettevano a guardare, sotto al fresco dei portici, la plaza. ‹‹Faceva caldo, ma la città aveva un fresco odore di primo mattino, ed era piacevole star seduti al caffè.›› Ebbene, volevo sentirlo anche io quell’odore, volevo fare come loro. E mi accomodai.

Il naso: più lo ficcavo dentro, più capivo che era stato un peccato non ficcarlo prima, quelle pagine ingiallite trasudavano odore di ‹‹cuoio fresco e catrame›› e ‹‹vino del paese››. Come un continuo e oggettivo piano sequenza, così Hemingway mi pareva trattare la parola scritta, mai una di troppo. Mentre io, pagina contro pagina, continuavo a eccitarmi. Altro che il corpo a corpo! Non la riuscivo a domare, la voglia. Mi sentivo come Brett in faccia al torero, ‹‹come posso fermare la cosa? Io non so fermare le cose. Capisci questo?››. E come un toro loco correvo a testa bassa per le vie di Pamplona incollato alla storia.

Giustappunto. Annoiati da Parigi e dalla bohème intellettuale di Montparnasse degli anni venti, Jake e gli altri decidono di andare a Pamplona a cercare la cura alla malattia di vivere. La cercano in mezzo alle alture basche e in mezzo a quelle alture, tra notti insonni, sbornie clamorose, battute di pesca e dialoghi memorabili come solo iddio sceso in terra sa, trascorrono i giorni della fiesta, quella di San Firmino. Giorni in cui ‹‹fin dal primo mattino i contadini erano nelle osterie›› a impiegare ‹‹il valore del loro denaro›› e la ‹‹paglia per terra›› e i ‹‹truogoli per bere contro il muro›› e le ‹‹mangiatoie di legno›› e i ‹‹muri di pietra bianchi e lavati›› e l’alcol e il sesso, tutto insomma, ‹‹pareva una cattiva commedia.›› Giorni in cui ‹‹dalle finestre delle case si affacciavano teste›› che non aspettavano altro che i tori. Giorni in cui Brett era irrefrenabile e mai contenta, nonostante l’amore di Jake e i suoi – buoni o cattivi? – propositi. ‹‹Ho trentaquattro anni, capisci. Non diventerò una di quelle vacche che rovinano i ragazzi.›› Con Jake, Brett e gli altri quei giorni là ci stavo pure io, seduto sopra al vimini a guardare la plaza. A mescolare realtà e finzione.

Come un cane randagio fiutavo ogni odore, dal caffè appena fatto ai cornetti ancora caldi alla merda di piccione. Ogni momento poteva essere buono per sentirlo. Lo cercavo in tutti i modi, volevo quello fresco del primo mattino. Lo stesso che sentiva Jake, lo stesso di quei giorni là. Ma più fiutavo e più lo capivo, quell’odore viveva solo dentro a quelle pagine ingiallite.