L’arte di legare le persone

di Alessandra Banfi

‹‹La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.››

A pagina due mi sono ricordata delle patate.
La pentola era grande, l’acqua al livello giusto, le patate belle grosse.
Mi muovevo in cucina, ma l’attenzione era tutta per le voci in fondo al corridoio. Voci alte e piene di rabbia. In comunità tirava una brutta aria già dal primo pomeriggio. Non ero da sola, c’era anche la mia collega. Era lei a tenere sott’occhio la situazione. Poi è successo, ed è successo quando le patate erano ancora crude. Un putiferio, una bufera di imprecazioni e urla, rumori di cose sbattute. Mi sono catapultata in fondo al corridoio.
Mani che stringono, piedi che colpiscono, oggetti che volano. Il figlio contro la madre.
Ci siamo messe in mezzo – io e la collega – e il figlio, a un certo punto, si è anche dato una calmata. Per un attimo ci siamo illuse, vabbè, forse la smette, si è sfogato. Invece stava solo riprendendo fiato. Ha ricominciato a menare la madre più forte di prima. Mi si offusca la memoria, ma rivedo i suoi occhi sbarrati e la sua pelle color vinaccia. In testa un solo pensiero: ora ‘sto ragazzo scoppia, va in mille pezzi e muore. Non può resistere a questa pressione.
Poi è arrivata l’ambulanza. Il medico è apparso in salotto. Un angelo che porta pace. Non ricordo la sua faccia, ma era piena di luce, ne sono sicura. Un’apparizione mistica. Grazie dottore.
Le patate, intanto, sono diventate poltiglia. Un purè.

Leggo L’arte di legare le persone di Paolo Milone… rido, piango e penso a tutte le volte in cui ho provato (e provo) la paura di perdere il controllo e impazzire.
Se mi elenchi i sintomi di una certa malattia mentale nel giro di dieci minuti me li sento tutti. Non posso farci niente. La sensazione di essere un po’ matta mi passa solo quando incrocio qualcuno poco più matto di me e allora mi sento io quella normale.
Continuo a leggere ed è tutto così assurdo, a volte, che mi scappa da ridere. Ma quando finisco di ridere ho un sapore amarissimo in bocca.

D. non parlava con nessuno. Era bellissima, ma non lo sapeva, non lo vedeva. A letto, sotto due o tre strati di coperte, si sentiva in pace con il mondo.
M. mangiava poco e aveva così paura dell’acqua che non si lavava mai.
C. è saltato dopo. A saluti fatti. Aveva desiderato tanto quel posto in officina e poi, quando l’ha ottenuto, si è scombinato tutto.

Leggo e cerco di immaginare quello che si prova lavorando sulle urgenze psichiatriche. Ma non ci riesco, è troppo complesso. Io certe cose le ho sfiorate da lontano, non sono un medico, e in Psichiatria ci sono entrata solo un paio di volte per fare delle visite a dei ricoverati. Lì ho ascoltato i racconti bestemmiati di un tossicodipendente – “sono di casa, qui”, diceva lui – e quelli di un ometto così cordiale e delicato che fatico ancora adesso ad associarlo a quel reparto. E la ragazzina che camminava nel corridoio strisciando la punta dell’indice lungo la parete, prima da un lato, poi dall’altro? Mi ha fissata per tutto il tempo con uno sguardo pieno di meraviglia e un sorriso rigido.
Ciò che fa paura, a volte, fa anche tenerezza. E invidio chi capisce, chi sa comunicare, chi riesce a trovare lo spiraglio buono, il gesto adatto. Chi riesce a ricucire lo strappo, mettere una pezza, ricomporre i cocci rotti.
Guardo la sveglia, dovrei dormire ma non ne ho voglia. Fa freddo, eppure ho in testa il profumo dell’erba umida in estate. L’erba che fruscia di notte. Ho voglia di un prato e di un cielo.
Spengo la luce della camera. Spalanco la finestra. Sollevo la tapparella. Mi infilo sotto le coperte. Riesco a vederlo. Il cielo è quasi limpido. C’è qualche stella. Al prato invece devo rinunciare. Mi accontento e rido. Sono le 00.40 e non mi sento tanto normale. Ma chissenefrega. Stasera va bene così.

Frida. Una biografia di Frida Kahlo

di Alessandra Banfi

‹‹… diceva la verità quando sosteneva che io non valgo un centavo, almeno per tutti quelli che una volta dicevano di essere miei amici, perché naturalmente per me io valgo molto di più di un centavo dato che mi piaccio come sono.››

Frida. Una biografia di Frida Kahlo, Hayden Herrera, Neri Pozza.

Ho cercato anche le foto, dopo. Le foto del funerale. Prima però ho cercato una delle ballate d’addio, La barca de oro, perché non la conoscevo. Me la immaginavo triste – parecchio triste – e infatti lo è, eppure la sua melodia svela anche una rassegnata accettazione che diventa sollievo. Sono stata meglio, dopo averla ascoltata.
Questa ballata è una delle ultime canzoni intonate dai presenti nel momento dell’addio a Frida Kahlo.
Le porte del forno crematorio aperte, il carrello che comincia a muoversi lentamente per portare il corpo di Frida verso il fuoco, io che guardo dalla pagina di un libro e leggo piano per non perdermi niente, per restare ancora in sua compagnia. Ma poi arriva l’ultima riga, l’ultima parola, il punto, e dopo il punto si spengono le luci. Resto sola con il libro appoggiato sopra una pila di romanzi che aspettano d’essere letti.
In tutta sincerità, adesso non ho voglia di leggere altro. Ho bisogno di fermarmi qui per qualche tempo.
Comincio a cercare le foto. Alcune già viste, naturale.
Frida al lavoro, Frida con una piccola scimmia, Frida sorridente, Frida allettata, Frida che taglia lo sguardo di chi la osserva con un’espressione che mi fa venire i brividi.
E poi trovo le altre foto, quelle che non ho mai visto. Quelle che cercavo. Le foto del funerale.
Il viso di Frida nella bara coperta dalla bandiera comunista, grandi cascate di fiori, tanta gente attorno. Mi soffermo sullo scatto, lo ingrandisco. Poi dico che no, forse non dovrei guardare così a lungo.
Parto dalla fine e ripercorro al rovescio la biografia. Dalla tristezza delle ultime pagine ritorno ai passaggi meno dolorosi, quelli che mi hanno fatto ridere, riflettere, mentre la vita di Frida Kahlo prendeva forma sotto i miei occhi. Mi sembra di averla intorno. Sarà l’effetto delle cose scritte con cura. La testa vola in altre storie. Per forza, una vita così straordinaria non può che richiamare altre vite. Vite fantastiche, vite da romanzo. La realtà si mescola all’invenzione. I teschi di zucchero e le macchie di sangue mi riportano alle stravaganze di Macondo, gli scheletri lasciano spazio a Fermina Daza seduta sotto i mandorli di un portico, ma in un istante tornano le ferite aperte e le lacrime, la colonna spezzata e qualche piccola punzecchiatura. Ripenso a Clara chiaroveggente e alle sue stanze piene di spiriti e subito dopo mi ritrovo nella casa di Coyoacan in una girandola di immagini che mi stordisce un po’. Non capisco più dove ho letto cosa e che diavolo sta succedendo.
Ma in fondo provo piacere quando un libro mi rovescia in altri libri. Rivedo posti che non visitavo da un pezzo e ripesco dettagli che credevo d’aver dimenticato. E intorno è tutto un getto di colori, ritratti e pagine di diario che mi trascinano attraverso il Messico, gli Stati Uniti e Parigi fino a ritrovare di nuovo la casa all’angolo tra Calle Allende e Calle Londres. Mi avvicino. Dietro una grande vetrata posso vedere l’interno di una stanza. C’è tanta luce. Pennelli e boccette piene di colore sono disposti in ordine sopra un tavolo. Una donna dipinge davanti a un cavalletto. Ha i capelli scuri e una lunga gonna. Mi metto comoda. Non voglio andarmene subito. Resto a guardarla ancora un po’.


Drive-in

di Luca Palladino

«Mi spogliai e andai in giro nudo come tanti altri. Non mi vergognavo del mio corpo. Tutti facevano schifo.»

Mi chiamo Pagina 56, e passo le giornate chiusa in un libro che s’intitola Drive-in, scritto da un certo Joe Richard Harold Lansdale. Si potrebbe pensare che chiusa qui dentro io mi annoi, e potrebbe anche esser vero se solo riuscissi a immaginare cosa mi sto perdendo là fuori. E poi a me piace stare per conto mio. Purtroppo però è successo che per uno strano scherzo della sorte sono indissolubilmente legata, o meglio appiccicata, a Pagina 57. E non si pensi che questo fatto mi faccia piacere. Sì, certo: a volte abbiamo anche rapporti sessuali, ma per una questione fisiologica; qualche volta per noia, mai per amore. A voler essere sinceri, però, il più delle volte mi giro dall’altra parte, o almeno immagino di farlo, vorrei uno spazio tutto mio, ecco cosa vorrei.
Pagina 57 è poi logorroica, cioè ha il vizio di parlare anche quando è palese che nessuno, cioè io, l’ascolti. Ma la cosa che più mi sorprende, è che riesce a sapere cose che succedono in altre pagine, ma anche fuori. È lei che mi ha detto che siamo state scritte da Joe e qualcosa, se no come facevo a saperlo… Io per questo fatto che sa tutto di tutti, l’ho soprannominata Banditrice. Una volta mi ha persino riferito che nel libro di cui facciamo parte c’è un tizio che si è autoproclamato Re del Popcorn, uno di quei Re abituati a vomitare il proprio contenuto gastrico, nella fattispecie popcorn, sui sudditi, prima di annunciare più o meno così: «Prendetene e mangiatene tutti: questo è il mio corpo!». Per non parlare poi di quella volta che mi ha raccontato che laggiù, cioè in alcune pagine successive alle nostre, ci sono onde elettromagnetiche che saltano come rane, e anche una strana fata, una donnina che quando non usa la bacchetta magica per grattarsi il culo esaudisce i sogni altrui; per esempio una volta ha esaudito il sogno di un povero cristo con la passione sfrenata per la tivù, lo sventurato adesso si fa chiamare Popalong Cassidy e ha uno schermo a sedici pollici al posto della faccia, e per questo fatto si dà così tante arie che non sembra neanche vero. Sono conciata così, insomma, ad ascoltare cose che non stanno né in cielo né in terra, anche se suggestive, per carità.
Ma lo vuoi capire che non siamo più delle bambine?!?
Io comunque non voglio passare per una guastafeste, come un adulto di fronte all’infanzia; e neanche per una che si sfoga all’improvviso. Io so solo quello che porto scritto dentro me, e non voglio sapere altro. Io so solo badare a me stessa, e voglio parlare solo di me. D’altronde sono stata scritta in prima persona, ecco cosa sto cercando di dire.

Banditrice l’altro giorno mi ha allarmata, mi ha detto che i libri non letti vanno a finire al macero, cioè in una grande vasca insieme ad altre pagine, tipo in una fossa comune. Questa cosa mi ha fatto venire i brividi in ogni parte di me, quasiché «il mio passato stesse svanendo come una boccata di fiato freddo su uno specchio». Non voglio finire nel dimenticatoio, il solo pensiero mi rende triste, se avessi un volto sarebbe scuro, se fossi un pianeta mi sentirei avvinghiata da una cometa il cui unico maledetto interesse è farla finita con la luce, con il tempo, con il sole, e la luna, e le stelle e la carta e l’inchiostro, e con tutte le cose di cui si ha bisogno per vivere con dignità. Se fossi Banditrice non sarei triste, perché lei dice che non c’è bisogno di essere tristi né d’aver paura, che queste cose raramente accadono, che tutto sommato finire al macero non è il nostro destino, e che qui, custodite come siamo in una libreria privata insieme a tanti altri libri, siamo al sicuro. Non ci può succedere niente qui, rivolte come siamo contro un muro. Io però non mi fido dell’ottimismo di Banditrice, perciò gradirei essere tirata fuori da qui, cioè dallo scaffale, per star più tranquilla. Vorrei essere usata-aperta-sfogliata-sgualcita, vorrei essere rivoltata come un calzino, e persino letta.
Che meravigliosa idea che è, essere letta!

Le formiche festanti

di Alessandra Banfi

‹‹Sono tutti scappati. Rimangono solo i solitari.››

Fa freddo. Fuori c’è un bel po’ di neve, ne faccio cadere una manciata dal davanzale della finestra. Finisce sulla striscia di terra delle calle e delle margherite, proprio qui sotto. Ma le calle e le margherite non ci sono a dicembre, si capisce, e la terra non si vede, nascosta sotto venti centimetri di fiocchi bianchi. L’aria ghiacciata riempie subito la stanza, chiudo tutto, mi rimetto alla scrivania.
Le formiche festanti di Pinar Selek, edito da Fandango, è appoggiato sul portatile chiuso. L’ho finito di leggere poco fa. O forse no. Forse l’ho solo sognato. L’ho sognato come si sognano le cose belle che tengono alla larga i cattivi pensieri e gli incubi. Le cose belle che accendono qualcosa di buono nella testa.
I miei sogni si sono confusi con quelli dei protagonisti. Si sono accavallati e sovrapposti. 
Eppure l’ho visto davvero, il cielo blu di Nizza. L’ho visto attraverso le parole di Pinar Selek. Ho visto l’uomo che decifra questa città attraverso i rifiuti scartati dai suoi abitanti, la svampita Azucena con le scarpe rosse, l’uomo con la chitarra, la fattoria delle Paranoiche, i cestini di frutta e verdura sul tavolo dello stand accanto alla stazione, i piccoli sentieri tracciati con passi e gesti lenti per marcare un percorso e stabilire un contatto.
C’è Nizza e ci sono Parigi e Lione. Ci sono persone che guardano oltre, mani che si sfiorano per ritrovarsi o dirsi addio, treni notturni e incontri tra passeggeri, cani che capiscono gli umani e umani che capiscono i cani. E non c’è pagina senza profumo. Quello del mare, della malva soffritta, del vino e delle melanzane con l’aglio.
Queste formiche festanti sono fragili ma non temono la fatica. Cercano l’essenziale e lo cercano a voce bassa. Non hanno alcun bisogno di un palcoscenico sul quale mettersi in mostra.
Ci sono così tanti modi per realizzare un desiderio. A volte basta rincorrerlo in punta di piedi, senza fare troppo rumore.

Trans Europa Express

di Giovanni Di Prizito

‹‹Perché sono venuto qui? Me lo chiedo a ogni partenza.››

La prima cosa che ho fatto, ficcato il naso in Trans Europa Express, è stata prendere una vecchia cartina dell’Europa orientale. Con la matita ho disegnato un cerchio attorno a Kirkenes, Norvegia. Poi ho cerchiato Istanbul e tirato una linea verticale dalle terre iperboree fino al Bosforo, quindi ho fatto i calcoli: quattromilacinquecentosessantanove chilometri.

Seimila invece sono quelli che mi ha raccontato Paolo Rumiz, triestino di nascita e viaggiatore inesorabile. Trentatré giorni di cammino su treni, corriere, traghetti, chiatte, autostop e a piedi da Capo Nord ai Dardanelli.

Investito da un improvviso brivido di piacere, senza pensare a quello che mi passa per la testa salgo sul primo treno e gli corro dietro. Paolo Rumiz mi mostra subito la mappa, un tracciamento artigianale impresso a pagina venti, e mi dice che vuole fare ‹‹un itinerario borderline dal Mar Glaciale Artico al Mediterraneo, uno slalom gigante fuori e dentro la frontiera orientale dell’Unione europea››. Murmansk, Peter(Burg), Kaliningrad, Vilnius, Varsavia, Leopoli, Odessa e Istanbul le tappe principali.

Io, per il piacere dell’onestà, di quelle terre so poco, anzi niente. E glielo dico. Lui allora mi racconta per filo e per segno le storie del popolo slavo d’Oriente. Mi racconta del ‹‹pescatore di granchi giganti›› e delle ‹‹floride venditrici di panna acida e mirtilli››, del ‹‹pastore di renne in guerra disperata con la Gazprom di Putin››, dello scrittore di nome Lupo ritirato ‹‹in una casa solitaria tra i laghi della profonda Carelia››, di tutti i contrabbandieri e sommergibilisti incrociati, dei ‹‹giovani guardiamarina appena promossi e comandanti di carrette arrugginite nei gelidi mari del Nord››, di quando lungo un fiume ‹‹una vecchia di nome Ljuba con tre caprette al guinzaglio›› gli ha raccontato la sua Genesi del mondo e di quando invece su un treno ha visto ‹‹una folla di donne incollarsi alle cosce pacchi di dvd e sigarette usando lo scotch come giarrettiera››.

Tappa dopo tappa i suoi ‹‹otto taccuini di appunti›› diventano duecento-trentuno pagine mentre noi ci liberiamo di ogni forma di guida, perché ‹‹si viaggia assai meglio chiedendo alla gente››, fino a che con seimila chilometri di storie sotto ai piedi ci ritroviamo sul Podol’skij Ekspress a scendere verso il Mar Nero. Io, lui, lo zaino e i taccuini: sei chili di bagaglio. Prossima fermata Odessa. Destino Istanbul.

Fuori e dentro la frontiera orientale io e Paolo Rumiz continuiamo lo slalom gigante, una per una passiamo tutte le porte sia quelle rosse sia quelle blu anche se il corpo rimane piantato in casa. Confinato un’altra volta non faccio che divorare i suoi racconti e guardare dalla finestra, la neve che si posa sui tetti e quella che imbianca la salvia e il rosmarino. Fuori mi continuano a dire di stare dentro, ma io vorrei solo salire sul primo treno e disegnare cerchi con la matita.

Camere separate

di Giovanni Di Prizito

[…] E spiegò a Thomas che avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenenza ma non di possesso. […] Che non dovevano temere della loro solitudine, anzi viverla come il frutto più completo del loro amore perché, in fondo, pur nella separatezza, loro si appartenevano e continuavano ad amarsi.

Mi trovavo sul volo Bologna Brindisi intento a terminare Camere Separate di Pier Vittorio Tondelli, edito per i tipi di Bompiani. In quel tempo tutto era concesso, anche essere con il corpo a dieci mila metri sopra il mare e la mente tra Parigi e Correggio. Io e Leo. La portiera serrata, il corpo agganciato e lui che mi parlava.

Di Thomas, dei suoi immensi occhi neri e di quanto lo avessero perseguitato. Della prima volta che lo aveva visto. Della loro storia vissuta tra attesa, passione, distanza, desiderio e solitudine. Del loro amarsi perdutamente e dei loro viaggi di primavera. Della sua idea malinconica, sognatrice e distaccata dell’amore e di quella di Thomas, così diversa. Troppo.

Thomas voleva altro. Thomas voleva la quotidianità. Thomas voleva la normalità. Leo desiderava una perenne e sottointesa via di fuga. Leo desiderava pensare all’amore come qualcosa di impossibile e necessario. Leo desiderava essere un amante separato come se quell’amore volesse viverlo in un sogno, proteggerlo dal pantano della quotidianità. Come se così facendo, solo così, fosse possibile consegnarlo all’eternità.

Succede però che l’eternità diventi realtà, che la dama nera beffi l’amore e che ci si ritrovi all’improvviso a metà. In uno slancio emotivo da fare luce Leo prese a raccontarmi del viaggio a bordo del ‹‹piccolo aereo in volo tra Parigi e Monaco di Baviera›› verso l’ospedale, verso la fine, verso Thomas che ‹‹ad aspettarlo all’aeroporto con la sua Citroën scassata›› non ci sarebbe stato. Leo prese a raccontarmelo colpendomi dritto allo stomaco, fino a farmi male.

Io allora, asfissiato da quei colpi, alzai per un attimo gli occhi convinto che la mascherina, quella per l’ossigeno, fosse lì. Pronta. Ma l’aereo viaggiava imperturbato mentre io, ammutolito e un poco stordito, in un perverso gioco di apnea e masochismo non facevo altro che continuare a dare ragione alla mia amica Giada, ‹‹Tondelli riesce a darti un pugno nello stomaco e una carezza nello stesso, drammatico, momento.›› Ecco, in quel tempo dove tutto era concesso, di quei pugni e di quelle carezze non riuscivo a farne a meno.

Crepitio di stelle

di Alessandra Banfi

‹‹Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro.››

Nella terra d’Islanda si dipana una storia lunga centocinquant’anni. Una storia – Crepitio di stelle, scritta da Jón Kalman Stefánsson ed edita da Iperborea – fatta di cieli e lune brillanti, paesaggi brulli, terreni sconfinati, case di legno, appartamenti di città e sacchi colmi di pinne di foca, colline solitarie, mare e ghiaccio, erba fresca e asfalto innevato.
Ci sono quattro generazioni, dentro questa storia, e chi la racconta ripercorre il passato di un’intera famiglia. Il narratore, un uomo ormai quarantenne, ripesca la gioventù dei suoi bisnonni rivivendone le passioni e gli entusiasmi, i primi giorni insieme e le debolezze che fanno traballare la loro relazione.
Ma alle spalle di chi narra c’è anche la storia d’amore tra i suoi genitori – un amore interrotto da qualcosa di troppo doloroso – e un lutto così grande da perderci il respiro.
Il vuoto di un’assenza, a sette anni, puoi riempirlo con il gioco o con una viennese calda regalata da un fornaio con gli occhi arrossati. Poi, mentre giochi con i tuoi soldatini, questa assenza ingombrante può materializzarsi nella presenza di una matrigna silenziosa e con la faccia da orco alla quale però riconosci, un giorno, il potere di non averti permesso di essere inghiottito dalla notte.
Ci si sente così piccoli sotto il crepitio delle stelle.
Attraversiamo l’universo alla ricerca di un senso o di un equilibrio e poi, mentre cerchiamo la nostra destinazione, in un soffio la vita ci sfugge di mano e non restano che stanze vuote, finestre polverose e ricordi.
Come il sasso e la conchiglia che riportano il protagonista a tempi lontanissimi.
Un sasso e una conchiglia infilati sotto il cuscino della prozia. Due piccole speranze da stringere durante la notte. Due piccole speranze da restituire alla terra e al mare per chiudere un cerchio, un’esistenza. O per dire semplicemente grazie di quel prestito.





Un indovino mi disse

di Giovanni Di Prizito

‹‹Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere […]››

L’odore dello scotch da imballaggio, quello del cartone, lo stesso colore. Strappo dopo strappo le scatole si accatastano, la penna continua a scrivere e l’odore non se ne va. Indelebile sempre la stessa parola, libri.

Stringo tra le mani il primo che ho letto qui dentro, “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani, edito da Longanesi. Lo stringo e torno a cinque anni fa, a quell’annuncio letto non ricordo più nemmeno dove, e sento ancora le parole dell’indovino di Hong Kong: ‹‹Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai››. Io allora mi rimetto a guardare il mondo senza più correre. Scorro, al rallentatore.

Da Bangkok, campo base, Tiziano Terzani mi accompagna un’altra volta in giro per l’Oriente tra nuove e vecchie profezie, storie popolari, cibo di strada, gli avvertimenti delle fattucchiere cinesi e i consigli dei monaci buddhisti. Mi ci accompagna senza mai prendere l’aereo, perché così gli ha detto l’indovino diciassette anni prima. Mi ci accompagna in treno, nave, autobus e a piedi. Poi, sempre da Bangkok, mi fa salire su un treno con destino Firenze passando per Cina, Mongolia, Russia, Europa.

Io viaggio e inscatolo, alla giusta velocità. Come una lumaca mi porto dietro la casa provando a liberarmi del superfluo, dell’accumulato ormai passato. E ascolto le storie. Tiziano Terzani mi racconta di quella notte in mare, sul ponte della Nagarose, in mezzo alla luminaria dei pescherecci. ‹‹La notte, l’atmosfera della nave, e di nuovo quell’essere completamente fuori del solito mondo, mi avevano rimesso addosso quell’esilarante senso di libertà che è la mia droga […] Uno dei grandi piaceri della nave era questo aver tempo per lasciar la mente arzigogolare con i pensieri […] A volte era come riscoprire in una soffitta scatole di vecchie foto dimenticate. Sentivo che questo abbandono era risanatore.››

Ebbene. Mi abbandono anche io. Mi abbandono e mi risano con le gambe incrociate sopra il pavimento, senza dire una parola continuo ad ascoltarlo mentre montagne di cartone ingoiano i miei libri, le pareti tornano bianche e l’eco se la ride. Sono le undici, il clima è mite e la stanza è un cubo trasparente.

Traslocare, certe volte, ha il dolce malessere dell’amore quando se ne va. Quando la mancanza diventa nostalgia e i ricordi non fanno più male. Ecco, esattamente questo mi è successo non più tardi di venti giorni fa riascoltando la storia dell’indovino. Una fine. Un vuoto. Un inizio.

Non qui, non altrove

di Alessandra Banfi

«Siamo di razza pura, mezzosangue, quarteroni, ottavi, sedicesimi, trentaduesimi. Calcoli impossibili. Resti insignificanti.»

Non qui, non altrove, edito da Frassinelli, mette al centro della scena una serie di personaggi alle prese con una vita tutt’altro che semplice.
Qualcuno è alla ricerca di un lavoro onesto, qualcuno progetta di far soldi organizzando una rapina. Famiglie spezzate, conti irrisolti con il passato. C’è chi è orfano e chi si aggrappa ad un’attività socialmente utile per raddrizzare la propria esistenza o quella degli altri. Qualcuno si dondola tra l’ennesimo bicchiere di troppo e la voglia di redimersi.
La storia dei tuoi avi fatta a brandelli. La vita di città fuori dalla riserva, un viso segnato da sempre e per sempre da una sindrome feto-alcolica.
Minoranze da integrare, cancellare e amalgamare. Lutti non elaborati, memorie sempre più fragili.

Queste storie, intrecciate l’una all’altra fino a farsi strettissime, convergono in un finale che mi lascia qualcosa di aspro sulla punta della lingua.
All’ultima parola, all’ultima riga del romanzo, rimango inchiodata alla sedia con il libro aperto sulle ginocchia. La storia si chiude quando sento ancora il bisogno di ascoltare e forse è questa sensazione, più di tutto, a restituirmi la realtà dei nativi. Una realtà che ancora oggi è in sospeso e difficile da raccontare, nella quale avverto tutto il peso delle cose che faticano a darsi un loro tempo e un loro spazio. Una realtà facilissima da giudicare (da fuori, se vivi di pregiudizi e adori le conclusioni superficiali) e delicata da snocciolare dall’interno, sulla pagina.
L’autore, Tommy Orange, nato e cresciuto a Oakland, riesce bene nell’impresa di trascinarci dove vuole lui e ci chiede di non commettere l’errore di considerare «resilienti» i nativi. Mi mordo le labbra. Devo meditarci. La resilienza mi sembra una risorsa così profonda. Così necessaria. Poi rileggo e capisco. O credo di capire. In quanto «bianca» mi sento dalla parte del torto e avverto un senso di colpa persino nel dire Ti capisco.
Nessuno, in queste pagine, rincorre fantasmi o castelli fatti di nuvole, ma ciascun protagonista, a modo suo, è alla ricerca di qualcosa di concreto che lo tenga ancorato alla quotidianità e al diritto di percorrere la propria strada. Cercando un qui, ormai perduto, che è diventato un altrove, ancora da trovare.

Il grande sonno

di Luca Palladino

«Baciami, Chioma d’argento».

Un repentino e terribile silenzio piomba sulla conversazione. Eppure solo un attimo prima lei e lui parlavano del più e del meno con una certa nonchalance, discutevano amabilmente del tempo, dell’età, del lavoro, del significato della parola «coprifuoco», roba così. Poi di colpo sono finiti gli argomenti come una pistola che s’inceppa all’improvviso, così è arrivata la pesante cappa di silenzio a prendersi la scena. Ora sia lui che lei cercano in giro per la mente qualcosa di sensato da dire. Ma niente, non succede niente. I due, presi da un certo disagio, girano il capo di qua e di là alla ricerca di un altrove impossibile. Adesso lei afferra una ciocca di capelli guardandoseli con molta attenzione come se cercasse chissà che. Lui, invece, afferra il bicchiere pur sapendo che è vuoto.
Nel frattempo un uomo corpulento sulla trentina entra nel locale, e prima di accomodarsi al bancone e ordinare uno scotch doppio, dà un’occhiata alla coppia con la coda dell’occhio. Ha l’aria di essere un investigatore privato: che non sia il famoso detective Philip Marlowe? Sì, dev’essere proprio lui, anzi è proprio lui. Si è acceso una sigaretta anche se nel 2020 non si può, il barman glielo fa presente ma per lui a quanto pare è ancora il 1939.
L’orologio appeso al muro segna le sette della sera. Lo so perché sono seduto proprio di fianco alla coppia in stato di disagio, vedo le grandi spalle del detective Marlowe, l’orologio è proprio sulla sua testa, cioè di fronte a me. Vedo le smorfie del suo volto spigoloso attraverso lo specchio dietro al bancone. Ho in mano un libro, Il grande sonno, di Raymond Chandler edito da Adelphi edizioni. È ben strano che nel nostro paese esista una casa editrice così rigorosa, così… di un’avanguardia paradossale. Addirittura pare che adesso si sia messa in testa di avviare la pubblicazione di tutte le opere di Chandler: penso che non me ne perderò nemmeno una.

Una nuvola di fumo si espande sul capo di Philip Marlowe mentre la ragazza accanto, strabuzzando gli occhi, prende la decisione di svignarsela salutando goffamente il suo accompagnatore che rimane da solo a fissare il bicchiere vuoto. Marlowe la guarda uscire abbozzando un sorriso, ha ordinato un altro scotch doppio, e si è acceso un’altra sigaretta. È alle prese con una nuova indagine, un ricco signore lo ha incaricato di scovare una persona scomparsa, un irlandese di Clonmel, un certo Rusty Regan. Lo so perché c’è scritto nel libro che ho tra le mani.
Il ragazzo rimasto solo al tavolo di fianco al mio respira profondamente. Marlowe, invece, si è scolato il suo scotch doppio tutto d’un fiato. Ora ha lo sguardo fisso nel vuoto, forse sta pensando al caso da risolvere, oppure riflette sul grande sonno, quello che si dorme quando si è morti, o forse sta pensando alle labbra gelide di chioma d’argento che non bacerà mai più…
D’un tratto i miei occhi e quelli di Marlowe s’incontrano attraverso lo specchio, distolgo lo sguardo in un batter d’occhi.