Sette brevi lezioni di fisica

di Giovanni Di Prizito

‹‹Fino all’ultimo, il dubbio.››

Mi trovavo in campagna, isolato dalla materia urbana, quando ho deciso di ficcare il naso tra le 85 pagine di “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, Piccola Biblioteca Adelphi.

È apparso evidente fin da subito che il Professore non volesse scompaginarmi con limiti, derivate, integrali semplici, doppi e tripli, equazioni parametriche e leggi fisiche. No. Non era questo l’intento. Fin da subito invece mi ha messo a tu per tu con i capisaldi dell’intera narrazione, l’uomo e l’universo, spiegandomi la complessità con la semplicità.

In ordine di apparizione: La più bella delle teorie – I quanti – L’architettura del cosmo – Particelle – Grani di spazio – La probabilità, il tempo e il calore dei buchi neri – Noi. Dalla Relatività Generale di Einstein alla Meccanica Quantistica Carlo Rovelli mi ha mostrato la più grande delle virtù del pensiero scientifico: la messa in discussione dei valori, la ‹‹capacità di vedere le cose in modo diverso da come le vedevamo prima›› usando l’osservazione e la ragione, la capacità di non fidarsi dei pensieri precedenti e accogliere l’incredibile e stra-ordinaria ignoranza a cui apparteniamo.

Il Professore è stato chiaro: la chiave di tutto ciò che siamo – o che pensiamo di essere – è la relazione, ‹‹specchiandoci negli altri e nelle altre cose, impariamo chi siamo.›› Il Professore mi ha spiegato che nella Meccanica Quantistica ‹‹nessun oggetto ha una posizione definita, se non quando incoccia qualcos’altro›› e che il tempo come lo immaginiamo non esiste, così come lo spazio e quindi gli eventi assoluti. Io allora mi sono chiesto se ciò che è reale non lo sia solo rispetto a qualcos’altro, se la realtà non sia che un flusso di energia in continuo divenire di cui siamo parte, una gigantesca rete dove Noi contiamo tutto e niente, una gigantesca e meravigliosa rete dove lo spazio è creato dalle interazioni elementari tra i singoli quanti di gravità e il tempo dalla probabilità con cui accadono. Mi sono chiesto insomma se questo non sia che ‹‹un mondo di avvenimenti, non di cose.›› Domande, sempre domande.

Leggendo questo libro non ho fatto che pormi domande. Leggendo questo libro non ho fatto che ripartire dal dubbio. E alla fine ho pensato che siamo come tante piccole talpe che fanno il buco, escono fuori e dicono – wow, il mondo è grandissimo!

Tutto quello che non ho imparato a scuola

di Alessandra Banfi

«La mia speranza è che questo libriccino possa aiutarvi, indipendentemente da età o genere sessuale, a trovare il vostro polo, il vostro Everest, il vostro sogno.
Cambiare il proprio mondo può essere faticoso e a volte un po’ rischioso. Ma forse è ancora più rischioso lasciar perdere, non cercare di scoprire quanto può essere bella la vita».

Tutto quello che non ho imparato a scuola di Erling Kagge, edito da Einaudi, ha il profumo del ghiaccio e della neve. Delle cose sognate e poi realizzate. Ma anche delle sconfitte e delle debolezze umane. Delle questioni che comprendi soltanto col senno di poi.
Tra queste pagine i ricordi si mescolano alle riflessioni, alle piccole quotidianità che ti fanno stare con i piedi per terra e ai sogni che ti fanno volare alto, altissimo.
Poi è risaputo, le cose non vanno sempre nel verso in cui le hai immaginate, ma c’è qualcosa da imparare anche nelle situazioni più sfavorevoli. E certe verità si imparano dovunque, non solo dentro l’aula di una scuola.
Passeggiando in solitaria verso il Polo Sud impari ad ascoltare il tuo respiro, il silenzio che ti sta attorno. Scopri le sfumature del ghiaccio e della neve, misuri la tua forza e avverti il peso della volontà di andare dritto alla meta, un passo dopo l’altro.
Camminando in un bosco ritrovi l’odore della terra e degli alberi. Accantoni i rumori del traffico, gli squilli del cellulare, il sottofondo del televisore acceso in casa.
Nel mezzo di una tempesta in mare fai i conti con tutto quello che sei e con la girandola di emozioni che ti fa balzare lo stomaco tra preoccupazione, speranza, euforia e puro terrore.

Erling Kagge è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a toccare i tre poli: una cima dell’Everest, il Polo Nord e, appunto, il Polo Sud. Ha avuto maestri, compagni d’avventura, ha ascoltato pareri, chiesto consigli, ma soprattutto ha cercato di vivere i suoi sogni, non quelli degli altri.
Si è dato degli obiettivi e ha stabilito delle mete significative per la sua crescita, senza pensare troppo a ciò che avrebbero detto gli “spettatori”. Perché se è vero che c’è sempre qualcuno che osserva (e giudica) quello che fai, è altrettanto vero che non puoi nascondere i tuoi sogni per il timore del parere altrui.
A pensarci bene, nonostante tutto quello che ho imparato a scuola, potrei scrivere un lungo elenco di momenti nei quali, seduta al banco, ho percepito la mia inadeguatezza e le mie mancanze fino a sentirmi fuori posto. E il mio posto, a quel tempo, non sapevo di certo dove trovarlo.
Ma c’è così tanto spazio al di fuori della scuola che vale la pena mettersi sempre e comunque in gioco per trovare un luogo in cui ripartire e stare bene.
Fuori dalla scuola o da qualsiasi altro posto ci stia stretto. Fuori da un ufficio, lontani da un lavoro, da una relazione, dalle aspettative degli altri.
«A distanza di tanti anni, non saprei ancora raccontare tutto ciò che ho appreso durante i giorni e le notti trascorsi in mezzo ai ghiacci. Di una cosa però sono certo: in quel periodo della mia vita capii che era possibile vivere in modo diverso da come avevo vissuto sino ad allora».

Seni e uova

di Alessandra Banfi

‹‹Persone di tutte le razze e di tutte le età prendevano decisioni importanti e davano una svolta alle loro esistenze, cambiandole dall’oggi al domani. Solo io restavo sempre la stessa. Immobile, senza mai muovere un passo, socchiudevo gli occhi dinanzi a un possibile grande cambiamento, languendo nell’inazione››

Mi sono guardata attorno in libreria, cercando qualcosa da leggere. Ho sfogliato un po’ di pagine qua e là, indecisa. Poi ho notato questo libro. La copertina ha richiamato la mia attenzione, così chiara, così delicata. Un volume corposo. L’ho afferrato subito. Ho dato una lettura rapida all’incipit e ho cercato informazioni sulla trama e sull’autrice. Ho sorriso. Per quel poco che avevo appena scoperto, dentro quel romanzo c’era una grossa fetta delle cose alle quali pensavo da settimane. Forse da mesi.
Cavoli, è proprio vero che a volte sono i libri a scegliere te.

Ho comprato all’istante Seni e uova di Mieko Kawakami, edito da e/o edizioni.
È da un po’ che mi frulla in testa questo fatto del tempo che passa, del corpo che si trasforma, delle cose che cambiano e modificano il tuo punto di vista e il tuo modo di stare al mondo.
Seni e uova racconta tutto questo attraverso la quotidianità di Natsume Natsuko, aspirante scrittrice con un passato segnato da lutti e povertà e un presente altrettanto faticoso da gestire.
Ci sono tante storie di donne, dentro queste pagine. Donne vere – di quelle che incontri tutti i giorni – piene di bellezza, difetti e sfumature. Donne che l’attimo prima sono in equilibrio precario e l’istante dopo hanno i piedi ben piantati a terra. E ci sono discorsi molto femminili. Le mestruazioni, l’uso degli assorbenti, la mancanza di un marito o di un compagno, la fatica (e l’orgoglio) di crescere i figli da sole. Ci sono anche i seni richiamati dal titolo (imperfetti, scarni e dotati di capezzoli poco attraenti) e le uova (fecondate, capaci di generare una nuova vita).
Ci sono scelte sofferte e altre prese d’impulso. Ragioni (o pulsioni) per le quali le esistenze delle vite raccontate dalla Kawakami prendono una certa via, una certa inclinazione.
E tu, mentre leggi, ti chiedi cosa avresti fatto al posto delle protagoniste.
Ho trovato pagine nelle quali specchiarmi, altre dalle quali prendere le distanze. Ma niente è dato per scontato e le ragioni dei personaggi crescono e sfioriscono seguendo il corso delle stagioni e delle necessità che la vita presenta. Alcune scelte restano, altre si fanno strada verso nuove realtà, incrociando orizzonti inesplorati.
C’è la delicatezza dei ricordi, dei rimpianti, delle cose belle che svaniscono e lasciano un vuoto immenso. Le nocche che battono su una porta che non si aprirà mai, un grembiule rosso, giocattoli abbandonati.
Ci sono i toni accesi della rabbia e della paura. Lo stomaco vuoto, le frasi urlate, la solitudine.
E sopra ogni cosa, poi, si avverte il peso del tempo. Sul viso, nella luce degli occhi. Lungo le strade, nel centro città – insegne che cambiano, negozi che chiudono – e nelle periferie.
Da qualche parte, però, galleggiano ancora nell’aria gli odori di una volta. Basta riaccendere un ricordo per sentirli di nuovo. La lavanderia sotto casa, i bagni pubblici, il piccolo locale nel quale si era soliti festeggiare i momenti importanti. Ho pensato ai posti che conoscevo e non esistono più. Alle case che frequentavo e nelle quali non ho mai più rimesso piede. Agli androni dei palazzi, alle rampe di scale che avrei potuto salire a occhi chiusi e alle strade – sempre quelle, sempre rassicuranti – che attraversavo dando per scontato che le avrei attraversate per sempre.
Nel romanzo ci sono anche gli uomini, per dirla tutta. Ma si tratta di uomini inaffidabili, inconcludenti, irascibili, incapaci di comprendere le donne. Non tutti, no. C’è qualcuno che porta una luce sana, sincera.

Presterò questo libro a qualche amico. Voglio sapere cosa ne pensa un uomo, quali pensieri lo attraversano capitolo dopo capitolo. Non per trovare risposte, non le voglio, ma solo per provare a entrare nella pelle di un altro. Del resto Seni e uova non offre risposte, non consegna pensieri preconfezionati, ma apre la mente a una miriade di possibilità. Ognuno, poi, è libero di scegliere da quale parte stare.

 

 

 

 

 

Lo straniero

di Robespierre Capponi

“… devant cette nuit chargée de signes et d’étoiles, je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde.”

Ne Lo straniero, suo primo romanzo, Albert Camus racconta come la contingenza, l’hasard, la sorte abbia deviato il corso della vita di un uomo dedito ai bisogni fisici, incline ad ammazzare il tempo. Il caso buontempone di aver in tasca una pistola sotto un solleone.
Camus, attraverso la tecnica narrativa dell’io narrante, trascina il lettore dentro le consuetudini di Monsieur Meursault, il protagonista di questa storia; lo trascina dentro il suo “je”: j’ai pensé, j’ai senti, j’ai dit, j’ai fait, j’ai répondu, j’ai compris, j’ai remarqué, j’ai réfléchi, j’ai dîné.
Il leggitore è tirato dentro frasi telegrafiche quasiché ci fosse un’urgenza imminente, l’urgenza di affrontare la frase appresso, l’urgenza di vivere il presente, di appagare i propri bisogni fisici, di pisciare, di mangiare, di fottere, come se le necessità corporali fossero l’unica cosa che ci conta a questo mondo.
Leggendo si avverte come un’apprensione che pare di essere in un film di John Ford, dove gli indiani cattivi (sic!) sono pronti a comparire all’orizzonte da un momento all’altro. Anzi, l’occhio nudo può già vedere la polvere che alzano i cavalli al galoppo nella prateria e il cervello può già immaginare lo scalpo che l’indiano si prenderà.

Per via di tutta questa urgenza, il signor Meursault è tacciato dalla società in cui vive come un essere immorale e insensibile. Immorale e insensibile perché ha rinchiuso la madre in una casa di riposo, perché non piange al suo funerale; perché non ama la sua donna, perché non crede in dio, perché non gioca a fare l’adulto. D’altra parte, per sua stessa ammissione, la sua natura non gli consente di aver sentimenti, ché ci sono i bisogni fisici prima di tutto. Monsieur Meursault deve pisciare. Per la società questo è un’aggravante; è una colpa imperdonabile, perciò condannabile all’esecuzione capitale: la testa tagliata in una piazza pubblica in nome del popolo francese.

In questa lotta contro il tempo, maman est morte, ma tanto poi la morte non è che il fine della vita, ossia prepararsi a tutto rivivere.

Finché il caffè è caldo

di Martina Barbieri

«L’articolo di giornale sulla leggenda metropolitana del caffè chiudeva così: “In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?”»

C’è simbolo più vitale e sociale del caffè? Aroma antico che dilata le giornate con la sua carica energizzante. La scuola napoletana ne contempla l’intransigenza delle 3C (Comm-C***o-Coce) che tradotto vale a dire che il caffè si gusta solo cocente.

Mi chiedo spesso cosa sia questa novità del caffè freddo in estate e come possano alcuni bar non averlo affatto caldo nei lidi. Lo confesso: non pensavo si potesse scrivere un libro sull’importanza di bere il caffè caldo, poi ho scoperto il romanzo di Toshikazu Kawaguchi, Garzanti 2015, e mi sono ricreduta. Una bella storia, scorrevole, rilassante, ma anche e soprattutto delicata e al contempo intensa a partire proprio dal culto del caffè. Un culto tipicamente occidentale in una storia di ambientazione orientale.

Praticamente mi ha stregato già dalla copertina, che come se non bastasse il titolo Finché il caffè è caldo, vede pure un gatto sotto una sedia e un tavolo molto accogliente con due caffè fumanti ad ammaliarmi. (Amo i gatti e li venero da fedele molto devota al Gattolicesimo quale sono). In fondo che cos’è il caffè se non un pretesto per condividere momenti con le persone che amiamo? L’emblema del calore, un fatto affettivo. Vuoi mettere una lunga giornata senza ‘na tazzulella ‘e cafè?!? Non passerebbe mai e sarebbe tanto triste. Conosco persone che lo prendono addirittura dopo cena e poi dormono assai più tranquillamente di quando non lo prendono.

Per caffè s’intende anche un luogo di ritrovo, «un bar, un ristorante o più in generale un esercizio dedicato alla preparazione e vendita di cibi e bevande» – riporta il dizionario -, insomma, la cornice ideale dei rapporti umani. Quello protagonista del presente romanzo è un caffè – per l’appunto – molto speciale: misterioso, piccolo, raccolto, antiquato, frequentato da pochissime persone, quasi sempre le stesse, crocevia di rimorsi e di rimpianti. Piuttosto che un luogo fisico sembra quasi lo spazio rassicurante della coscienza umana ove deporre le proprie frustrazioni e affogarle nel calore di un caffè, a mo’ di espiazione. È la parabola dell’umanità nel suo percorso di vita. Quanti bivi e incroci in quel caffè! Mi sono scottata la mano anche io nell’impazienza di dover bere presto il mio, finché caldo. Pagina dopo pagina ne ho pregustato l’aroma, sentito l’odore e mi sono persa nei suoi vapori misti alla mia buona dose di malinconie legate ad un passato amaro, non zuccherato, che non si può cambiare. Ho atteso ansiosamente che la signora in abito bianco facesse la sua pausa toilette dalla lettura del romanzo per potermi accomodare a mia volta, in prima persona, su quella sedia magica capace di compiere viaggi nel tempo. Ho espresso ad occhi chiusi i connotati contingenti del mio desiderio di ritorno al passato: l’anno, il giorno, l’ora e la persona dalla quale tornare.

Ma a che pro, se tanto poi il presente non può cambiare?!? Per capire che ciò che conta non è modificare le circostanze, quanto noi stessi, che muta tutto in base alla nostra pace interiore. Credo, infatti, che uno dei più grandi e rassicuranti insegnamenti del romanzo sia che non possiamo cambiare l’andamento degli eventi nefasti, che pesa tanto più su di noi quando non abbiamo la coscienza a posto per accoglierli e accettarli; tuttavia, possiamo cambiare il nostro modo di rapportarci alle avversità della vita, vantando a nostra difesa una coscienza limpida, pulita, e allora chissà che un nostro diverso modo di essere non possa modificare se non il presente, il futuro?!? Di sicuro cambia lo stato di salute della nostra mente e questo influenza anche la realtà.

Finché il caffè è caldo è un mantra di vita, un inno al carpe diem, una metafora dell’esistenza che invita a vivere intensamente ogni momento, perché il nostro atteggiamento può fare la differenza anche su tutto ciò che non dipende da noi.

Morti di sonno

di Sara Maria Morganti

Inizio Morti di sonno a un’altitudine di 2.300 metri sul livello del mare, con i piedi infilati in un paio di orrende ciabatte blu e il culo parcheggiato su una seggiolina da campeggio ripiegabile Decathlon. Un sole molto vicino mi brucia la pelle e illumina le spesse pagine in bianco e nero che sfoglio combattendo contro il vento, ma comunque non mi interessano molto le condizioni atmosferiche. Ho camminato per giorni e oggi mi fermo.

Il fumetto di Reviati si apre con una finestrella sul mare, ma è un mare che non si fa desiderare, un mare infestato. Tutti quei fumi tossici che avvolgono la vita di Rino detto Koper e dei suoi compagni contrastano molto con l’aria tersa che sto respirando e tutto quel grigio, quel nero del fumetto non c’entra nulla con la luce che mi fa strizzare gli occhi. E nonostante questo io sto lì dentro con loro per tutto il tempo, in mezzo ai polpacci di quei ragazzini che giocano a calcio ogni giorno, perché il calcio è la cosa più importante, in mezzo ai gatti volanti e ai rospi brucianti, ai sassi lanciati e alle pesche rubate. C’è molto movimento in questo fumetto, anche se tutto avviene nello stesso luogo, perché da bambini si corre sempre, lo dice anche Rino, eppure non si ha fretta. Molto movimento in quella città romagnola vicino allo stabilimento ANIC e insieme molte cose non dette, come i balbettii di Sgnìz, come la mamma che ti accarezza la testa mentre un allarme costringe tutti in casa con le finestre sbarrate, come il babbo che piange in silenzio, come bere un altro bicchiere per riempirsi la bocca con l’alcol e non con le parole che vorresti dire a Ettore ma non puoi, perché lui se n’è andato presto e non lo sa cos’è successo dopo, e come glielo racconti cosa vuol dire crescere in un posto così?

Mi sembra che duri solo un attimo, molti anni in una manciata di minuti. All’improvviso anche io sono grande e quasi piango per quell’albero che era sempre stato lì senza mai dare fastidio a nessuno, o almeno così credevamo, Rino ed io, ma ci sbagliavamo perché l’hanno reciso alla base per fare un po’ d’ordine e di pulizia, finalmente, ce lo dice la vicina, e usa proprio queste parole: «ordine», «pulizia», «finalmente». All’improvviso tutto è seppellito sotto terra: le foglie e i fichi che l’albero lasciava cadere, il canale di scolo della città che puzzava di marcio e che era il nostro gioco più eroico, gli amici che ci son stati portati via.

Finisco Morti di sonno, che Coconino Press finiva di stampare per la prima volta undici anni e un mese fa, e sono sempre lì, ciabatte e seggiolina, eppure mi sento un po’ diversa e se chiudo gli occhi vedo rondini in bianco e nero.

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

di Giovanni Di Prizito

‹‹Ogni storia di uomo, matto o normale, è una mescolatura delle stesse cose, na cascanna di lacrime, qualche sorrisetto, na cinquina di gioie di straforo, e un dolore grosso come quando al cinema si spengono le luci.››

Certi libri sono come gli odori, riescono a trasportarti nel momento e nel luogo esatto in cui li hai letti per la prima volta. In un certo senso ti fanno viaggiare nel tempo. Quello che ho ripreso oggi, per esempio, l’ho letto in uno di quei momenti quando la vita la senti divampare dentro, un’esplosione emotiva che ti fa sentire un poco matto e un poco bambino. Quando lo stomaco si chiude, il cuore fa tututum tututum tututum tututum, le immagini scorrono e tu non puoi fare altro che sfiorarle. Questo puoi fare, niente. Fermo. Immobile. Non toccarle. Non dire una parola.

Se poi il libro in questione è su una cocciamatte, cioè su uno che parla da solo e che si mette le pietre in tasca per la paura di volare via, che usa poco la ragione e assai il cuore, che sente i rumori in testa e che vede quello che non c’è, un altro insomma un poco matto e un poco bambino, forse, in uno di quei momenti là, tra paturnie e piagnistei è meglio rimandarla la lettura. Ma se già dalla prima pagina dentro a quel libro ci entri pure tu rimandarla diventa impossibile, allora chiudi gli occhi e ti ci butti dentro alle fiamme.

Bonfiglio Liborio, per duecento-cinquanta pagine, mi ha preso la mano e mi ha fatto camminare insieme a lui, da quando è nato nel 1926 a quando è morto nel 2010. Bonfiglio Liborio mi ha raccontato, in prima persona e con la lingua tutta sgarbugliata, quello che ha vissuto, da quando era piccolo a quando era grande: scuola, apprendistato da barbiere, militare, case chiuse, guerra, Resistenza, lavoro in fabbrica, sindacato, manicomio e solitudine. Gli amori perduti, quelli ritrovati, gli amici operai, i segni neri, i rumori in testa, il maestro Cianfarra Romeo, il libro Cuore e il medico dei matti. Bonfiglio Liborio, in una giostra popolare di fallimenti, rivincite, solitudine e malinconia lunga ottanta-quattro anni, mi ha raccontato il coraggio e la follia. E più parlava, sempre tutto sgarbugliato, più il rumore aumentava – tututum tututum tututum tututum.

Io allora, a pensare e ripensare alle paturnie mie, mi sentivo come a lui, ‹‹tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello›› che non riusciva a fermare il rumore, ‹‹[…] perché uno più ricordi ha e più ci soffre di cuore, perché i ricordi sono solo ricordi e le cose che ti ricordi non tornano indietro vive […]››. La ragazza di fronte con la guida di Palermo, quella rannicchiata dall’altro lato che si mangiava le unghie – Dio che fastidio, quella che leggeva il libro sulla felicità, la signora al telefono che si lamentava delle ernie cervicali mentre io pensavo a quelle lombari, quella che sempre al telefono urlava prondo! prondo! e l’altra che rideva tutta scomposta, la bambina con il quaderno di Peppa Pig, il signore con le parole crociate e il cappello da pescatore, il controllore che controllava, la voce che contingentava, la sicurezza, la distanza, la mascherina, l’alcol, il disinfettante e i guanti. Tutto mi sembrava irreale. Tutto mi sembrava immaginario. Sopra a quel treno di primavera, in mezzo agli sconquassamenti dell’anima, tutto mi sembrava sbagliato. L’unico che mi capiva era Liborio. Gli altri invece mi guardavano come si guardano i matti, impauriti.

Era chiaro. Era prevedibile. Stavamo diventando una cosa sola. Io e Liborio camminavamo mano nella mano fregandocene delle ansie fameliche e di tutto il resto di questo mondo, tanto quelli come noi non li capisce nessuno, vanno solo messi al manicomio ‹‹[…] che è come una libreria dove al posto dei libri ci stanno i matti, tutti belli affilati nelle camerate proprio come i libri sullo scaffale […]››. Liborio mi raccontava di quando ce lo avevano portato per davvero allo ‹‹spedale pissichiatrico››, mentre io pensavo che per fortuna non esistevano più e che quindi me l’ero scampata. Pagina dopo pagina Liborio diventava il mio curatore, guaritore e confessore, altro che matto, le sue parole facevano la luce e domavano l’incendio. E io ormai l’avevo capito, ‹‹[…] tutto dipendeva dalla mia forza di dentro […]››, solo che ‹‹non sapevo se quella forza ce l’avevo e dove la dovevo cercare […]››.

Ecco. Oggi che rificco il naso tra quelle pagine raggrinzite e ancora bagnate, oggi che riprendo in mano “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” di Remo Rapino e che rifaccio un pezzo di strada insieme a lui l’odore è lo stesso di quei momenti là. E allora oggi diventa ieri e io torno al treno, al viaggio di primavera, al confinamento, alle paturnie e ai piagnistei, alle immagini sfiorate, agli sconquassamenti dell’anima, ai ricordi mezzi vivi e mezzi morti, alla guida sicula e al cuore tutto sgarrupato che faceva rumore e penso, e un poco mi viene da sorridere a pensarlo, che alla fine Liborio non si era sbagliato, ‹‹perché ogni storia finisce, e se finisce, finisce, e non ci sta più parola da dire.››

Febbre

di Alessandra Banfi


“Ancora oggi io ho paura che Rozzano rivendichi il suo dominio, che si riprenda ciò che le spetta. Che sbuchi fuori all’improvviso da qualche parte, dai documenti, dai miei tratti del viso marcati, dalla sciatteria nel vestire e che mi costringa quindi a tornare di nuovo al confino, tra le sue vie coi nomi dei fiori”.

Tutto parte da un luogo – circoscritto, definitivo – brulicante di un’umanità che cerca di rimanere a galla. Un’umanità che si arrangia come può e resta in piedi con quello che ha (a volte poco più di niente).
L’ho sentita anch’io la febbre, a un certo punto del romanzo. A modo mio, per empatia.
Una di quelle febbri che ti sconquassano la pancia e arrivano su, fino alla testa.
Ho sentito la rabbia e la delusione per un destino che ti si appiccica alla pelle e non ti molla. Ma ho sentito anche la voglia di trovare una dimensione nuova, differente, nella quale essere quello che sei e non ciò che gli altri ti chiedono di essere.
Jonathan Bazzi è cresciuto a Rozzano.
Palazzi, cemento, voci sempre pronte a diventare urla o insulti. Mani che colpiscono e graffiano per stabilire gerarchie e confini.
Se non ti adegui sei fuori.
Se non ti allinei sei un perdente, un diverso, uno che non ce la fa.
Ma un bambino può scegliere di restare fedele a se stesso? Può scegliere di non allinearsi?
Jonathan-bambino l’ha fatto. Non si è allineato. Prima con la fantasia, poi, da adulto, rinunciando all’idea di nascondersi. L’ha fatto per strada, seguito dagli insulti di chi lo guardava passare. L’ha fatto a scuola, anche quando le parole faticavano a uscire dalle sue labbra. L’ha fatto dentro casa, nonostante le incomprensioni e i silenzi. Nonostante la noia, la paura, la solitudine. Nonostante tutto.
Ha trovato un altro modo. Un’altra strada, altre persone – compagni di viaggio, compagni di vita.
Febbre è la storia di una resistenza.
La resistenza di chi non sa picchiare, di chi non urla, di chi cerca il bello, di chi sceglie di non schierarsi dalla parte del più forte per convenienza o comodità. Una storia fatta di liti, separazioni e frasi gridate, eppure tra le righe di queste pagine ho trovato una tenerezza che non mi sarei mai aspettata.
Come nelle fiabe, quando fai il tifo per il personaggio lasciato solo o considerato da tutti un inetto, e tu capisci che è un’ingiustizia perché quel personaggio è capace di fare la differenza e la farà, stravolgendo il proprio destino e ribellandosi a un fato deciso dagli altri.
Febbre racconta gli agganci nei quali speri da una vita, quelli buoni. Quelli che ti tirano fuori da un mondo che (forse) non hai mai sentito tuo.
La scuola e il bisogno di essere il più bravo, un paio di amici ai quali puoi raccontare tutto, un amore nuovo. E poi la voglia, sempre e comunque, di non tirarsi indietro, di esprimere tutto te stesso. Anche quando stai male e scopri di essere sieropositivo.

“La malattia fa più paura finché rimane distante: quando ti arriva addosso, tutto diventa più facile”.

Un nuovo punto di vista, una prospettiva che non hai mai considerato, un’esperienza che entra a far parte del tuo orizzonte e scansa ogni desiderio di nascondersi o eclissarsi. 

Mi sono abituato all’idea che mi dovrei vergognare di quello che sono e ho capito che il patto velenoso si può spezzare raccontando tutto.”

La periferia è uno spazio mentale in cui perdersi. Ci si amalgama, ci si annulla e si accetta il ruolo al quale si è predestinati.
La periferia è nella testa delle persone, ai margini delle città, ma anche nelle vie del centro, nei paesi, nelle case perbene di chi si considera sempre nel giusto, nel disprezzo che proviamo verso chi non la pensa come noi, nell’arroganza di chi pretende di essere un gradino più in alto degli altri. La periferia – la realtà – è piena di streghe, orchi e bambini abbandonati nel bosco. Come nelle fiabe. Ma puoi scegliere da che parte stare e puoi scegliere di non tacere. Essere quello che sei senza alzare la voce.
Jonathan ce l’ha fatta.





Amianto, una storia operaia

di Robespierre Capponi

«Quando da piccolo la maestra mi chiedeva quale era il lavoro di mio padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa volesse dire».

Maremma cane, me li ricordo quei momenti interminabili in cui la maestra ci domandava che mestiere facessero i genitori o, ancor peggio, da dove provenissero. Quel tipo di domande avevano il dono di spingermi nel precipizio di una certa difficoltà, a tal punto che speravo non arrivasse mai il mio turno. Non capivo poi perché arrivava, il mio turno, e soprattutto perché fosse così importante conoscere l’estrazione sociale, o territoriale, dei miei genitori.

Per il compagno Alberto Prunetti, autore di Amianto, una storia operaia, non è andata così. Lo scrittore toscano non veniva costretto a provare disagio quando la maestra gli chiedeva quale fosse il mestiere del su’ babbo; e non era costretto a provare disagio perché nella scuola che frequentava i poveracci non erano i figli delle fabbriche, ma gli altri, i figli dei ricchi, le mezze seghe che non sapevano neanche tirare un calcio al pallone.

Con Amianto, primo libro della fondamentale trilogia working class, Prunetti racconta la storia del su’ babbo Renato, saldatore tubista, eroe operaio, costretto dai padroni a saldare tubi sotto un telone ricoperto di amianto. Costretto «a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti», costretto ad ammalarsi per campare. Per un tocco di pane.
Alberto Prunetti racconta la vicenda di Renato con grande coraggio, e lo fa mettendoci il canapone, cioè il cuore, che «regge più del teflon». Lo fa rispettando la filettatura degli eventi, legando poi il tutto «con un dito sporco di mastice verde». Lo fa con le lacrime agli occhi, lacrime che, però, non perdono, perché Alberto ha stretto con forza le parole, «ma senza cattiveria».
C’è un punto preciso nel libro in cui questa stretta decisa la si vede benissimo. Ad un certo punto, infatti, la scrittura di Alberto Prunetti sembra non perdere più, sembra scorrere via fluida, senza singhiozzi e lacrime che annebbiano la vista e che fanno tremare la mano. Gli occhi si asciugano, la mano diventa sicura e la storia prende a scorrere via come un fiume in piena (è il lettore semmai che perde le lacrime). È come se tra le pagine il lutto venisse a poco a poco lubrificato nei suoi ingranaggi, elaborato.

La storia di Renato mi ha ricordato il muratore fiorentino Metello, leggendo Amianto ho incontrato le stesse facce amiche, le stesse coscienze pulite, le stesse mani faticate, e lo stesso identico nemico del romanzo di Pratolini: lo sfruttamento. I lavoratori continuano a essere «stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare». Pretende il diritto di ammazzare.

La storia di Renato, come la storia di Metello, appartiene a tutte le epoche, è una storia vecchia come il mondo, la storia dell’oppressione, dello sfruttamento, della barbarie; la storia infinita dei padroni (mai satolli come i polli e i preti) che sfruttano tutto lo sfruttabile, che si prendono tutto: i corpi, le menti, le vite. Mica altro. Il capitale non si limita a uccidere, consuma lentamente.
Le ferite inferte ai lavoratori, e ai loro cari, si fanno segni indelebili sulla pelle di chi parte e di chi resta, cicatrici d’ingiustizia, di nocività, di ricatti imperituri.

Ma, boiadé, non ci abbiamo fatto il callo.

L’animale che mi porto dentro

di Sara Maria Morganti

Erano molti mesi che non tornavo nella nostra casa di campagna, un piccolo casolare costruito anni fa da qualche mio lontano parente in mezzo alle colline toscane, poco distante dal confine con l’Umbria. Da quando mio nonno è morto, mia nonna ci abita da sola d’inverno e d’estate. In quel pezzo di campagna i cellulari non prendono e in televisione gli unici canali sintonizzati sono l’1, il 2 e il 3. È il posto ideale per leggere indisturbati: basta ignorare il gallo. Per questo avevo infilato in borsa L’animale che mi porto dentro, con l’intenzione di finirlo nel giorno e mezzo che avrei trascorso lì.

Ci sono sempre dei piccoli accadimenti magici legati alla lettura di un libro, ma sono convinta che le case di campagna facilitino la loro comparsa, o quanto meno la loro comprensione. Così, mentre leggevo le parole di Francesco Piccolo, scoprivo la casa guidarmi con gli strumenti che aveva a disposizione.

La prima sera, ad esempio, mia nonna stava guardando Rai 1 ed è iniziato “Techetechetè”, un programma che mi capita di ascoltare solo quando sono lì. Era uno speciale su Sandokan, in particolare sullo sceneggiato televisivo, che non avevo mai visto. E proprio mentre c’era Sandokan in tutte le salse dentro lo schermo del nostro televisore, ecco che dentro al libro leggevo delle sue imprese e del suo amore per Marianna. Sì, perché l’autore si paragona al pirata di Mompracem, feroce come una tigre, ma che rischia di perdere tutto per amore della perla di Labuan, nella quale riconosce una sua cotta adolescenziale.

«Divertente», ho pensato, se non che il giorno successivo, dopo pranzo, mia nonna stava guardando Rai 2. A “Io e te” l’ospite Bruno Vespa parlava del suo ultimo libro, in cui tratta di famose figure femminili del mondo dello spettacolo. Non stavo prestando molta attenzione, ma all’improvviso ho sentito Vespa citare le calze di Laura Antonelli in Malizia e mi è crollato il libro in grembo. Un film che non avevo mai sentito nominare fino a poco prima, quando lo avevo letto nel libro di Francesco Piccolo. E anche stavolta l’autore si immedesima col giovane Nino del film, che manda i fiori ad Angela ma quando lei lo scopre nega fino alla morte, perché si vergogna meno a ricattarla sessualmente che a dichiarare un gesto romantico.

Nonostante la condizione facilitata, devo ammettere di essere stata piuttosto lenta nella lettura, perché L’animale che mi porto dentro è un libro così privato e intimo che quasi mi vergognavo a leggerlo con mia nonna nella stessa stanza, come se lei potesse a sua volta leggermi nel pensiero. Mentre leggevo mi vergognano, ma m’indignavo anche e m’incazzavo, mi eccitavo e poi mi sentivo superiore in quanto donna e subito dopo sporca sempre per lo stesso motivo. A un certo punto volevo addirittura abbandonare del tutto perché sembra quasi che l’autore voglia dire che il motivo per cui si comporta da stronzo è che durante l’adolescenza ha sofferto di acne giovanile. Al che compostamente ho chiuso il libro e mi son detta «eh no, questo no.» Ma poi ho trovato il coraggio di andare avanti, anche perché sentivo la guida della casa, e ho capito che la questione è più profonda di così.

Piccolo parla piuttosto della pressione del gruppo dei maschi sugli altri maschi, istituendo un inquietante parallelo fra questa sorta di perenne controllo “anti-checca” e una vera e propria prigionia nel Panopticon. Un controllo che continua a essere esercitato nonostante il tempo e la distanza, attraverso il ricordo. Credo addirittura che la questione di fondo del libro sia riconducibile al solo rapporto dell’autore con suo padre ormai morto. Infatti il momento più tragicomico di tutti è quello del racconto della sua regressione mentale, improvvisa quanto singolare. Un uomo anziano ridotto a pura pulsione sessuale, che non distingue più le donne della sua vita (sua moglie, sua figlia, la moglie di suo figlio, la bandante), per cui tutte diventano oggetto di attenzioni sessuali. E questa pulsione è l’unica cosa che rimane, mentre il resto viene spazzato via: l’amore per i figli, persino la capacità di riconoscerli, l’amore per la moglie, ogni cosa.

Mi ha fatto venire in mente che quando ero bambina mia nonna accudiva una signora anziana e malata di Alzheimer, che tenevamo con noi. D’estate c’era anche lei nella nostra casa in campagna e io ricordo chiaramente la sua figura nel nostro cortile. Anche lei, come il padre di Piccolo, aveva dimenticato tutto e spesso, non sapendo dove si trovava, si avviava a piedi così com’era, in ciabatte e vestaglia da camera, dicendo che «andava a casa sua». Se nessuno se ne accorgeva, qualcuno la ritrovava lungo la strada, la caricava in macchina e la riaccompagnava da noi. Ricordo anche che scambiava sempre mio nonno per suo marito morto molti anni prima. Eppure non aveva alcun impulso sessuale nei suoi confronti, non se lo voleva portare a letto, non provava a toccarlo o a baciarlo: per lei mio nonno era il suo grande amore e basta. E se questa è una questione di genere, come Piccolo sembra voler lasciare intendere, allora non posso che sentirmi fortunata.

Il fantasma della signora Dilva è solo uno dei tanti che mi sono apparsi mentre leggevo il libro in cui Piccolo parla dei suoi. Terminata la lettura, prima di ripartire, ho salutato tutti i fantasmi legati a quella casa, parenti, amici dei miei nonni. Li ho guardati volto per volto e li ho trovati bellissimi. In tutta onestà, non invidio affatto Piccolo e i suoi fantasmi, che lo seguono ovunque, giudicanti e feroci.