Frida. Una biografia di Frida Kahlo

di Alessandra Banfi

‹‹… diceva la verità quando sosteneva che io non valgo un centavo, almeno per tutti quelli che una volta dicevano di essere miei amici, perché naturalmente per me io valgo molto di più di un centavo dato che mi piaccio come sono.››

Frida. Una biografia di Frida Kahlo, Hayden Herrera, Neri Pozza.

Ho cercato anche le foto, dopo. Le foto del funerale. Prima però ho cercato una delle ballate d’addio, La barca de oro, perché non la conoscevo. Me la immaginavo triste – parecchio triste – e infatti lo è, eppure la sua melodia svela anche una rassegnata accettazione che diventa sollievo. Sono stata meglio, dopo averla ascoltata.
Questa ballata è una delle ultime canzoni intonate dai presenti nel momento dell’addio a Frida Kahlo.
Le porte del forno crematorio aperte, il carrello che comincia a muoversi lentamente per portare il corpo di Frida verso il fuoco, io che guardo dalla pagina di un libro e leggo piano per non perdermi niente, per restare ancora in sua compagnia. Ma poi arriva l’ultima riga, l’ultima parola, il punto, e dopo il punto si spengono le luci. Resto sola con il libro appoggiato sopra una pila di romanzi che aspettano d’essere letti.
In tutta sincerità, adesso non ho voglia di leggere altro. Ho bisogno di fermarmi qui per qualche tempo.
Comincio a cercare le foto. Alcune già viste, naturale.
Frida al lavoro, Frida con una piccola scimmia, Frida sorridente, Frida allettata, Frida che taglia lo sguardo di chi la osserva con un’espressione che mi fa venire i brividi.
E poi trovo le altre foto, quelle che non ho mai visto. Quelle che cercavo. Le foto del funerale.
Il viso di Frida nella bara coperta dalla bandiera comunista, grandi cascate di fiori, tanta gente attorno. Mi soffermo sullo scatto, lo ingrandisco. Poi dico che no, forse non dovrei guardare così a lungo.
Parto dalla fine e ripercorro al rovescio la biografia. Dalla tristezza delle ultime pagine ritorno ai passaggi meno dolorosi, quelli che mi hanno fatto ridere, riflettere, mentre la vita di Frida Kahlo prendeva forma sotto i miei occhi. Mi sembra di averla intorno. Sarà l’effetto delle cose scritte con cura. La testa vola in altre storie. Per forza, una vita così straordinaria non può che richiamare altre vite. Vite fantastiche, vite da romanzo. La realtà si mescola all’invenzione. I teschi di zucchero e le macchie di sangue mi riportano alle stravaganze di Macondo, gli scheletri lasciano spazio a Fermina Daza seduta sotto i mandorli di un portico, ma in un istante tornano le ferite aperte e le lacrime, la colonna spezzata e qualche piccola punzecchiatura. Ripenso a Clara chiaroveggente e alle sue stanze piene di spiriti e subito dopo mi ritrovo nella casa di Coyoacan in una girandola di immagini che mi stordisce un po’. Non capisco più dove ho letto cosa e che diavolo sta succedendo.
Ma in fondo provo piacere quando un libro mi rovescia in altri libri. Rivedo posti che non visitavo da un pezzo e ripesco dettagli che credevo d’aver dimenticato. E intorno è tutto un getto di colori, ritratti e pagine di diario che mi trascinano attraverso il Messico, gli Stati Uniti e Parigi fino a ritrovare di nuovo la casa all’angolo tra Calle Allende e Calle Londres. Mi avvicino. Dietro una grande vetrata posso vedere l’interno di una stanza. C’è tanta luce. Pennelli e boccette piene di colore sono disposti in ordine sopra un tavolo. Una donna dipinge davanti a un cavalletto. Ha i capelli scuri e una lunga gonna. Mi metto comoda. Non voglio andarmene subito. Resto a guardarla ancora un po’.


Drive-in

di Luca Palladino

«Mi spogliai e andai in giro nudo come tanti altri. Non mi vergognavo del mio corpo. Tutti facevano schifo.»

Mi chiamo Pagina 56, e passo le giornate chiusa in un libro che s’intitola Drive-in, scritto da un certo Joe Richard Harold Lansdale. Si potrebbe pensare che chiusa qui dentro io mi annoi, e potrebbe anche esser vero se solo riuscissi a immaginare cosa mi sto perdendo là fuori. E poi a me piace stare per conto mio. Purtroppo però è successo che per uno strano scherzo della sorte sono indissolubilmente legata, o meglio appiccicata, a Pagina 57. E non si pensi che questo fatto mi faccia piacere. Sì, certo: a volte abbiamo anche rapporti sessuali, ma per una questione fisiologica; qualche volta per noia, mai per amore. A voler essere sinceri, però, il più delle volte mi giro dall’altra parte, o almeno immagino di farlo, vorrei uno spazio tutto mio, ecco cosa vorrei.
Pagina 57 è poi logorroica, cioè ha il vizio di parlare anche quando è palese che nessuno, cioè io, l’ascolti. Ma la cosa che più mi sorprende, è che riesce a sapere cose che succedono in altre pagine, ma anche fuori. È lei che mi ha detto che siamo state scritte da Joe e qualcosa, se no come facevo a saperlo… Io per questo fatto che sa tutto di tutti, l’ho soprannominata Banditrice. Una volta mi ha persino riferito che nel libro di cui facciamo parte c’è un tizio che si è autoproclamato Re del Popcorn, uno di quei Re abituati a vomitare il proprio contenuto gastrico, nella fattispecie popcorn, sui sudditi, prima di annunciare più o meno così: «Prendetene e mangiatene tutti: questo è il mio corpo!». Per non parlare poi di quella volta che mi ha raccontato che laggiù, cioè in alcune pagine successive alle nostre, ci sono onde elettromagnetiche che saltano come rane, e anche una strana fata, una donnina che quando non usa la bacchetta magica per grattarsi il culo esaudisce i sogni altrui; per esempio una volta ha esaudito il sogno di un povero cristo con la passione sfrenata per la tivù, lo sventurato adesso si fa chiamare Popalong Cassidy e ha uno schermo a sedici pollici al posto della faccia, e per questo fatto si dà così tante arie che non sembra neanche vero. Sono conciata così, insomma, ad ascoltare cose che non stanno né in cielo né in terra, anche se suggestive, per carità.
Ma lo vuoi capire che non siamo più delle bambine?!?
Io comunque non voglio passare per una guastafeste, come un adulto di fronte all’infanzia; e neanche per una che si sfoga all’improvviso. Io so solo quello che porto scritto dentro me, e non voglio sapere altro. Io so solo badare a me stessa, e voglio parlare solo di me. D’altronde sono stata scritta in prima persona, ecco cosa sto cercando di dire.

Banditrice l’altro giorno mi ha allarmata, mi ha detto che i libri non letti vanno a finire al macero, cioè in una grande vasca insieme ad altre pagine, tipo in una fossa comune. Questa cosa mi ha fatto venire i brividi in ogni parte di me, quasiché «il mio passato stesse svanendo come una boccata di fiato freddo su uno specchio». Non voglio finire nel dimenticatoio, il solo pensiero mi rende triste, se avessi un volto sarebbe scuro, se fossi un pianeta mi sentirei avvinghiata da una cometa il cui unico maledetto interesse è farla finita con la luce, con il tempo, con il sole, e la luna, e le stelle e la carta e l’inchiostro, e con tutte le cose di cui si ha bisogno per vivere con dignità. Se fossi Banditrice non sarei triste, perché lei dice che non c’è bisogno di essere tristi né d’aver paura, che queste cose raramente accadono, che tutto sommato finire al macero non è il nostro destino, e che qui, custodite come siamo in una libreria privata insieme a tanti altri libri, siamo al sicuro. Non ci può succedere niente qui, rivolte come siamo contro un muro. Io però non mi fido dell’ottimismo di Banditrice, perciò gradirei essere tirata fuori da qui, cioè dallo scaffale, per star più tranquilla. Vorrei essere usata-aperta-sfogliata-sgualcita, vorrei essere rivoltata come un calzino, e persino letta.
Che meravigliosa idea che è, essere letta!

Le formiche festanti

di Alessandra Banfi

‹‹Sono tutti scappati. Rimangono solo i solitari.››

Fa freddo. Fuori c’è un bel po’ di neve, ne faccio cadere una manciata dal davanzale della finestra. Finisce sulla striscia di terra delle calle e delle margherite, proprio qui sotto. Ma le calle e le margherite non ci sono a dicembre, si capisce, e la terra non si vede, nascosta sotto venti centimetri di fiocchi bianchi. L’aria ghiacciata riempie subito la stanza, chiudo tutto, mi rimetto alla scrivania.
Le formiche festanti di Pinar Selek, edito da Fandango, è appoggiato sul portatile chiuso. L’ho finito di leggere poco fa. O forse no. Forse l’ho solo sognato. L’ho sognato come si sognano le cose belle che tengono alla larga i cattivi pensieri e gli incubi. Le cose belle che accendono qualcosa di buono nella testa.
I miei sogni si sono confusi con quelli dei protagonisti. Si sono accavallati e sovrapposti. 
Eppure l’ho visto davvero, il cielo blu di Nizza. L’ho visto attraverso le parole di Pinar Selek. Ho visto l’uomo che decifra questa città attraverso i rifiuti scartati dai suoi abitanti, la svampita Azucena con le scarpe rosse, l’uomo con la chitarra, la fattoria delle Paranoiche, i cestini di frutta e verdura sul tavolo dello stand accanto alla stazione, i piccoli sentieri tracciati con passi e gesti lenti per marcare un percorso e stabilire un contatto.
C’è Nizza e ci sono Parigi e Lione. Ci sono persone che guardano oltre, mani che si sfiorano per ritrovarsi o dirsi addio, treni notturni e incontri tra passeggeri, cani che capiscono gli umani e umani che capiscono i cani. E non c’è pagina senza profumo. Quello del mare, della malva soffritta, del vino e delle melanzane con l’aglio.
Queste formiche festanti sono fragili ma non temono la fatica. Cercano l’essenziale e lo cercano a voce bassa. Non hanno alcun bisogno di un palcoscenico sul quale mettersi in mostra.
Ci sono così tanti modi per realizzare un desiderio. A volte basta rincorrerlo in punta di piedi, senza fare troppo rumore.

Trans Europa Express

di Giovanni Di Prizito

‹‹Perché sono venuto qui? Me lo chiedo a ogni partenza.››

La prima cosa che ho fatto, ficcato il naso in Trans Europa Express, è stata prendere una vecchia cartina dell’Europa orientale. Con la matita ho disegnato un cerchio attorno a Kirkenes, Norvegia. Poi ho cerchiato Istanbul e tirato una linea verticale dalle terre iperboree fino al Bosforo, quindi ho fatto i calcoli: quattromilacinquecentosessantanove chilometri.

Seimila invece sono quelli che mi ha raccontato Paolo Rumiz, triestino di nascita e viaggiatore inesorabile. Trentatré giorni di cammino su treni, corriere, traghetti, chiatte, autostop e a piedi da Capo Nord ai Dardanelli.

Investito da un improvviso brivido di piacere, senza pensare a quello che mi passa per la testa salgo sul primo treno e gli corro dietro. Paolo Rumiz mi mostra subito la mappa, un tracciamento artigianale impresso a pagina venti, e mi dice che vuole fare ‹‹un itinerario borderline dal Mar Glaciale Artico al Mediterraneo, uno slalom gigante fuori e dentro la frontiera orientale dell’Unione europea››. Murmansk, Peter(Burg), Kaliningrad, Vilnius, Varsavia, Leopoli, Odessa e Istanbul le tappe principali.

Io, per il piacere dell’onestà, di quelle terre so poco, anzi niente. E glielo dico. Lui allora mi racconta per filo e per segno le storie del popolo slavo d’Oriente. Mi racconta del ‹‹pescatore di granchi giganti›› e delle ‹‹floride venditrici di panna acida e mirtilli››, del ‹‹pastore di renne in guerra disperata con la Gazprom di Putin››, dello scrittore di nome Lupo ritirato ‹‹in una casa solitaria tra i laghi della profonda Carelia››, di tutti i contrabbandieri e sommergibilisti incrociati, dei ‹‹giovani guardiamarina appena promossi e comandanti di carrette arrugginite nei gelidi mari del Nord››, di quando lungo un fiume ‹‹una vecchia di nome Ljuba con tre caprette al guinzaglio›› gli ha raccontato la sua Genesi del mondo e di quando invece su un treno ha visto ‹‹una folla di donne incollarsi alle cosce pacchi di dvd e sigarette usando lo scotch come giarrettiera››.

Tappa dopo tappa i suoi ‹‹otto taccuini di appunti›› diventano duecento-trentuno pagine mentre noi ci liberiamo di ogni forma di guida, perché ‹‹si viaggia assai meglio chiedendo alla gente››, fino a che con seimila chilometri di storie sotto ai piedi ci ritroviamo sul Podol’skij Ekspress a scendere verso il Mar Nero. Io, lui, lo zaino e i taccuini: sei chili di bagaglio. Prossima fermata Odessa. Destino Istanbul.

Fuori e dentro la frontiera orientale io e Paolo Rumiz continuiamo lo slalom gigante, una per una passiamo tutte le porte sia quelle rosse sia quelle blu anche se il corpo rimane piantato in casa. Confinato un’altra volta non faccio che divorare i suoi racconti e guardare dalla finestra, la neve che si posa sui tetti e quella che imbianca la salvia e il rosmarino. Fuori mi continuano a dire di stare dentro, ma io vorrei solo salire sul primo treno e disegnare cerchi con la matita.

Camere separate

di Giovanni Di Prizito

[…] E spiegò a Thomas che avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenenza ma non di possesso. […] Che non dovevano temere della loro solitudine, anzi viverla come il frutto più completo del loro amore perché, in fondo, pur nella separatezza, loro si appartenevano e continuavano ad amarsi.

Mi trovavo sul volo Bologna Brindisi intento a terminare Camere Separate di Pier Vittorio Tondelli, edito per i tipi di Bompiani. In quel tempo tutto era concesso, anche essere con il corpo a dieci mila metri sopra il mare e la mente tra Parigi e Correggio. Io e Leo. La portiera serrata, il corpo agganciato e lui che mi parlava.

Di Thomas, dei suoi immensi occhi neri e di quanto lo avessero perseguitato. Della prima volta che lo aveva visto. Della loro storia vissuta tra attesa, passione, distanza, desiderio e solitudine. Del loro amarsi perdutamente e dei loro viaggi di primavera. Della sua idea malinconica, sognatrice e distaccata dell’amore e di quella di Thomas, così diversa. Troppo.

Thomas voleva altro. Thomas voleva la quotidianità. Thomas voleva la normalità. Leo desiderava una perenne e sottointesa via di fuga. Leo desiderava pensare all’amore come qualcosa di impossibile e necessario. Leo desiderava essere un amante separato come se quell’amore volesse viverlo in un sogno, proteggerlo dal pantano della quotidianità. Come se così facendo, solo così, fosse possibile consegnarlo all’eternità.

Succede però che l’eternità diventi realtà, che la dama nera beffi l’amore e che ci si ritrovi all’improvviso a metà. In uno slancio emotivo da fare luce Leo prese a raccontarmi del viaggio a bordo del ‹‹piccolo aereo in volo tra Parigi e Monaco di Baviera›› verso l’ospedale, verso la fine, verso Thomas che ‹‹ad aspettarlo all’aeroporto con la sua Citroën scassata›› non ci sarebbe stato. Leo prese a raccontarmelo colpendomi dritto allo stomaco, fino a farmi male.

Io allora, asfissiato da quei colpi, alzai per un attimo gli occhi convinto che la mascherina, quella per l’ossigeno, fosse lì. Pronta. Ma l’aereo viaggiava imperturbato mentre io, ammutolito e un poco stordito, in un perverso gioco di apnea e masochismo non facevo altro che continuare a dare ragione alla mia amica Giada, ‹‹Tondelli riesce a darti un pugno nello stomaco e una carezza nello stesso, drammatico, momento.›› Ecco, in quel tempo dove tutto era concesso, di quei pugni e di quelle carezze non riuscivo a farne a meno.

Crepitio di stelle

di Alessandra Banfi

‹‹Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro.››

Nella terra d’Islanda si dipana una storia lunga centocinquant’anni. Una storia – Crepitio di stelle, scritta da Jón Kalman Stefánsson ed edita da Iperborea – fatta di cieli e lune brillanti, paesaggi brulli, terreni sconfinati, case di legno, appartamenti di città e sacchi colmi di pinne di foca, colline solitarie, mare e ghiaccio, erba fresca e asfalto innevato.
Ci sono quattro generazioni, dentro questa storia, e chi la racconta ripercorre il passato di un’intera famiglia. Il narratore, un uomo ormai quarantenne, ripesca la gioventù dei suoi bisnonni rivivendone le passioni e gli entusiasmi, i primi giorni insieme e le debolezze che fanno traballare la loro relazione.
Ma alle spalle di chi narra c’è anche la storia d’amore tra i suoi genitori – un amore interrotto da qualcosa di troppo doloroso – e un lutto così grande da perderci il respiro.
Il vuoto di un’assenza, a sette anni, puoi riempirlo con il gioco o con una viennese calda regalata da un fornaio con gli occhi arrossati. Poi, mentre giochi con i tuoi soldatini, questa assenza ingombrante può materializzarsi nella presenza di una matrigna silenziosa e con la faccia da orco alla quale però riconosci, un giorno, il potere di non averti permesso di essere inghiottito dalla notte.
Ci si sente così piccoli sotto il crepitio delle stelle.
Attraversiamo l’universo alla ricerca di un senso o di un equilibrio e poi, mentre cerchiamo la nostra destinazione, in un soffio la vita ci sfugge di mano e non restano che stanze vuote, finestre polverose e ricordi.
Come il sasso e la conchiglia che riportano il protagonista a tempi lontanissimi.
Un sasso e una conchiglia infilati sotto il cuscino della prozia. Due piccole speranze da stringere durante la notte. Due piccole speranze da restituire alla terra e al mare per chiudere un cerchio, un’esistenza. O per dire semplicemente grazie di quel prestito.





Un indovino mi disse

di Giovanni Di Prizito

‹‹Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere […]››

L’odore dello scotch da imballaggio, quello del cartone, lo stesso colore. Strappo dopo strappo le scatole si accatastano, la penna continua a scrivere e l’odore non se ne va. Indelebile sempre la stessa parola, libri.

Stringo tra le mani il primo che ho letto qui dentro, “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani, edito da Longanesi. Lo stringo e torno a cinque anni fa, a quell’annuncio letto non ricordo più nemmeno dove, e sento ancora le parole dell’indovino di Hong Kong: ‹‹Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai››. Io allora mi rimetto a guardare il mondo senza più correre. Scorro, al rallentatore.

Da Bangkok, campo base, Tiziano Terzani mi accompagna un’altra volta in giro per l’Oriente tra nuove e vecchie profezie, storie popolari, cibo di strada, gli avvertimenti delle fattucchiere cinesi e i consigli dei monaci buddhisti. Mi ci accompagna senza mai prendere l’aereo, perché così gli ha detto l’indovino diciassette anni prima. Mi ci accompagna in treno, nave, autobus e a piedi. Poi, sempre da Bangkok, mi fa salire su un treno con destino Firenze passando per Cina, Mongolia, Russia, Europa.

Io viaggio e inscatolo, alla giusta velocità. Come una lumaca mi porto dietro la casa provando a liberarmi del superfluo, dell’accumulato ormai passato. E ascolto le storie. Tiziano Terzani mi racconta di quella notte in mare, sul ponte della Nagarose, in mezzo alla luminaria dei pescherecci. ‹‹La notte, l’atmosfera della nave, e di nuovo quell’essere completamente fuori del solito mondo, mi avevano rimesso addosso quell’esilarante senso di libertà che è la mia droga […] Uno dei grandi piaceri della nave era questo aver tempo per lasciar la mente arzigogolare con i pensieri […] A volte era come riscoprire in una soffitta scatole di vecchie foto dimenticate. Sentivo che questo abbandono era risanatore.››

Ebbene. Mi abbandono anche io. Mi abbandono e mi risano con le gambe incrociate sopra il pavimento, senza dire una parola continuo ad ascoltarlo mentre montagne di cartone ingoiano i miei libri, le pareti tornano bianche e l’eco se la ride. Sono le undici, il clima è mite e la stanza è un cubo trasparente.

Traslocare, certe volte, ha il dolce malessere dell’amore quando se ne va. Quando la mancanza diventa nostalgia e i ricordi non fanno più male. Ecco, esattamente questo mi è successo non più tardi di venti giorni fa riascoltando la storia dell’indovino. Una fine. Un vuoto. Un inizio.

Non qui, non altrove

di Alessandra Banfi

«Siamo di razza pura, mezzosangue, quarteroni, ottavi, sedicesimi, trentaduesimi. Calcoli impossibili. Resti insignificanti.»

Non qui, non altrove, edito da Frassinelli, mette al centro della scena una serie di personaggi alle prese con una vita tutt’altro che semplice.
Qualcuno è alla ricerca di un lavoro onesto, qualcuno progetta di far soldi organizzando una rapina. Famiglie spezzate, conti irrisolti con il passato. C’è chi è orfano e chi si aggrappa ad un’attività socialmente utile per raddrizzare la propria esistenza o quella degli altri. Qualcuno si dondola tra l’ennesimo bicchiere di troppo e la voglia di redimersi.
La storia dei tuoi avi fatta a brandelli. La vita di città fuori dalla riserva, un viso segnato da sempre e per sempre da una sindrome feto-alcolica.
Minoranze da integrare, cancellare e amalgamare. Lutti non elaborati, memorie sempre più fragili.

Queste storie, intrecciate l’una all’altra fino a farsi strettissime, convergono in un finale che mi lascia qualcosa di aspro sulla punta della lingua.
All’ultima parola, all’ultima riga del romanzo, rimango inchiodata alla sedia con il libro aperto sulle ginocchia. La storia si chiude quando sento ancora il bisogno di ascoltare e forse è questa sensazione, più di tutto, a restituirmi la realtà dei nativi. Una realtà che ancora oggi è in sospeso e difficile da raccontare, nella quale avverto tutto il peso delle cose che faticano a darsi un loro tempo e un loro spazio. Una realtà facilissima da giudicare (da fuori, se vivi di pregiudizi e adori le conclusioni superficiali) e delicata da snocciolare dall’interno, sulla pagina.
L’autore, Tommy Orange, nato e cresciuto a Oakland, riesce bene nell’impresa di trascinarci dove vuole lui e ci chiede di non commettere l’errore di considerare «resilienti» i nativi. Mi mordo le labbra. Devo meditarci. La resilienza mi sembra una risorsa così profonda. Così necessaria. Poi rileggo e capisco. O credo di capire. In quanto «bianca» mi sento dalla parte del torto e avverto un senso di colpa persino nel dire Ti capisco.
Nessuno, in queste pagine, rincorre fantasmi o castelli fatti di nuvole, ma ciascun protagonista, a modo suo, è alla ricerca di qualcosa di concreto che lo tenga ancorato alla quotidianità e al diritto di percorrere la propria strada. Cercando un qui, ormai perduto, che è diventato un altrove, ancora da trovare.

Il grande sonno

di Luca Palladino

«Baciami, Chioma d’argento».

Un repentino e terribile silenzio piomba sulla conversazione. Eppure solo un attimo prima lei e lui parlavano del più e del meno con una certa nonchalance, discutevano amabilmente del tempo, dell’età, del lavoro, del significato della parola «coprifuoco», roba così. Poi di colpo sono finiti gli argomenti come una pistola che s’inceppa all’improvviso, così è arrivata la pesante cappa di silenzio a prendersi la scena. Ora sia lui che lei cercano in giro per la mente qualcosa di sensato da dire. Ma niente, non succede niente. I due, presi da un certo disagio, girano il capo di qua e di là alla ricerca di un altrove impossibile. Adesso lei afferra una ciocca di capelli guardandoseli con molta attenzione come se cercasse chissà che. Lui, invece, afferra il bicchiere pur sapendo che è vuoto.
Nel frattempo un uomo corpulento sulla trentina entra nel locale, e prima di accomodarsi al bancone e ordinare uno scotch doppio, dà un’occhiata alla coppia con la coda dell’occhio. Ha l’aria di essere un investigatore privato: che non sia il famoso detective Philip Marlowe? Sì, dev’essere proprio lui, anzi è proprio lui. Si è acceso una sigaretta anche se nel 2020 non si può, il barman glielo fa presente ma per lui a quanto pare è ancora il 1939.
L’orologio appeso al muro segna le sette della sera. Lo so perché sono seduto proprio di fianco alla coppia in stato di disagio, vedo le grandi spalle del detective Marlowe, l’orologio è proprio sulla sua testa, cioè di fronte a me. Vedo le smorfie del suo volto spigoloso attraverso lo specchio dietro al bancone. Ho in mano un libro, Il grande sonno, di Raymond Chandler edito da Adelphi edizioni. È ben strano che nel nostro paese esista una casa editrice così… come dire?… di un’avanguardia paradossale. Addirittura pare che adesso si sia messa in testa di pubblicare tutte le opere di Chandler: penso che non me ne perderò nemmeno una.

Una nuvola di fumo si espande sul capo di Philip Marlowe mentre la ragazza accanto, strabuzzando gli occhi, prende la decisione di svignarsela salutando goffamente il suo accompagnatore che rimane da solo a fissare il bicchiere vuoto. Marlowe la guarda uscire abbozzando un sorriso, ha ordinato un altro scotch doppio, e si è acceso un’altra sigaretta. È alle prese con una nuova indagine, un ricco signore lo ha incaricato di scovare una persona scomparsa, un irlandese di Clonmel, un certo Rusty Regan. Lo so perché c’è scritto nel libro che ho tra le mani.
Il ragazzo rimasto solo al tavolo di fianco al mio respira profondamente. Marlowe, invece, si è scolato il suo scotch doppio tutto d’un fiato. Ora ha lo sguardo fisso nel vuoto, forse sta pensando al caso da risolvere, oppure riflette sul grande sonno, quello che si dorme quando si è morti, o forse sta pensando alle labbra gelide di chioma d’argento che non bacerà mai più…
D’un tratto i miei occhi e quelli di Marlowe s’incontrano attraverso lo specchio, distolgo lo sguardo in un batter d’occhi.

Sette brevi lezioni di fisica

di Giovanni Di Prizito

‹‹Fino all’ultimo, il dubbio.››

Mi trovavo in campagna, isolato dalla materia urbana, quando ho deciso di ficcare il naso tra le 85 pagine di “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, Piccola Biblioteca Adelphi.

È apparso evidente fin da subito che il Professore non volesse scompaginarmi con limiti, derivate, integrali semplici, doppi e tripli, equazioni parametriche e leggi fisiche. No. Non era questo l’intento. Fin da subito invece mi ha messo a tu per tu con i capisaldi dell’intera narrazione, l’uomo e l’universo, spiegandomi la complessità con la semplicità.

In ordine di apparizione: La più bella delle teorie – I quanti – L’architettura del cosmo – Particelle – Grani di spazio – La probabilità, il tempo e il calore dei buchi neri – Noi. Dalla Relatività Generale di Einstein alla Meccanica Quantistica Carlo Rovelli mi ha mostrato la più grande delle virtù del pensiero scientifico: la messa in discussione dei valori, la ‹‹capacità di vedere le cose in modo diverso da come le vedevamo prima›› usando l’osservazione e la ragione, la capacità di non fidarsi dei pensieri precedenti e accogliere l’incredibile e stra-ordinaria ignoranza a cui apparteniamo.

Il Professore è stato chiaro: la chiave di tutto ciò che siamo – o che pensiamo di essere – è la relazione, ‹‹specchiandoci negli altri e nelle altre cose, impariamo chi siamo.›› Il Professore mi ha spiegato che nella Meccanica Quantistica ‹‹nessun oggetto ha una posizione definita, se non quando incoccia qualcos’altro›› e che il tempo come lo immaginiamo non esiste, così come lo spazio e quindi gli eventi assoluti. Io allora mi sono chiesto se ciò che è reale non lo sia solo rispetto a qualcos’altro, se la realtà non sia che un flusso di energia in continuo divenire di cui siamo parte, una gigantesca rete dove Noi contiamo tutto e niente, una gigantesca e meravigliosa rete dove lo spazio è creato dalle interazioni elementari tra i singoli quanti di gravità e il tempo dalla probabilità con cui accadono. Mi sono chiesto insomma se questo non sia che ‹‹un mondo di avvenimenti, non di cose.›› Domande, sempre domande.

Leggendo questo libro non ho fatto che pormi domande. Leggendo questo libro non ho fatto che ripartire dal dubbio. E alla fine ho pensato che siamo come tante piccole talpe che fanno il buco, escono fuori e dicono – wow, il mondo è grandissimo!

Tutto quello che non ho imparato a scuola

di Alessandra Banfi

«La mia speranza è che questo libriccino possa aiutarvi, indipendentemente da età o genere sessuale, a trovare il vostro polo, il vostro Everest, il vostro sogno.
Cambiare il proprio mondo può essere faticoso e a volte un po’ rischioso. Ma forse è ancora più rischioso lasciar perdere, non cercare di scoprire quanto può essere bella la vita».

Tutto quello che non ho imparato a scuola di Erling Kagge, edito da Einaudi, ha il profumo del ghiaccio e della neve. Delle cose sognate e poi realizzate. Ma anche delle sconfitte e delle debolezze umane. Delle questioni che comprendi soltanto col senno di poi.
Tra queste pagine i ricordi si mescolano alle riflessioni, alle piccole quotidianità che ti fanno stare con i piedi per terra e ai sogni che ti fanno volare alto, altissimo.
Poi è risaputo, le cose non vanno sempre nel verso in cui le hai immaginate, ma c’è qualcosa da imparare anche nelle situazioni più sfavorevoli. E certe verità si imparano dovunque, non solo dentro l’aula di una scuola.
Passeggiando in solitaria verso il Polo Sud impari ad ascoltare il tuo respiro, il silenzio che ti sta attorno. Scopri le sfumature del ghiaccio e della neve, misuri la tua forza e avverti il peso della volontà di andare dritto alla meta, un passo dopo l’altro.
Camminando in un bosco ritrovi l’odore della terra e degli alberi. Accantoni i rumori del traffico, gli squilli del cellulare, il sottofondo del televisore acceso in casa.
Nel mezzo di una tempesta in mare fai i conti con tutto quello che sei e con la girandola di emozioni che ti fa balzare lo stomaco tra preoccupazione, speranza, euforia e puro terrore.

Erling Kagge è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a toccare i tre poli: una cima dell’Everest, il Polo Nord e, appunto, il Polo Sud. Ha avuto maestri, compagni d’avventura, ha ascoltato pareri, chiesto consigli, ma soprattutto ha cercato di vivere i suoi sogni, non quelli degli altri.
Si è dato degli obiettivi e ha stabilito delle mete significative per la sua crescita, senza pensare troppo a ciò che avrebbero detto gli “spettatori”. Perché se è vero che c’è sempre qualcuno che osserva (e giudica) quello che fai, è altrettanto vero che non puoi nascondere i tuoi sogni per il timore del parere altrui.
A pensarci bene, nonostante tutto quello che ho imparato a scuola, potrei scrivere un lungo elenco di momenti nei quali, seduta al banco, ho percepito la mia inadeguatezza e le mie mancanze fino a sentirmi fuori posto. E il mio posto, a quel tempo, non sapevo di certo dove trovarlo.
Ma c’è così tanto spazio al di fuori della scuola che vale la pena mettersi sempre e comunque in gioco per trovare un luogo in cui ripartire e stare bene.
Fuori dalla scuola o da qualsiasi altro posto ci stia stretto. Fuori da un ufficio, lontani da un lavoro, da una relazione, dalle aspettative degli altri.
«A distanza di tanti anni, non saprei ancora raccontare tutto ciò che ho appreso durante i giorni e le notti trascorsi in mezzo ai ghiacci. Di una cosa però sono certo: in quel periodo della mia vita capii che era possibile vivere in modo diverso da come avevo vissuto sino ad allora».

Seni e uova

di Alessandra Banfi

‹‹Persone di tutte le razze e di tutte le età prendevano decisioni importanti e davano una svolta alle loro esistenze, cambiandole dall’oggi al domani. Solo io restavo sempre la stessa. Immobile, senza mai muovere un passo, socchiudevo gli occhi dinanzi a un possibile grande cambiamento, languendo nell’inazione››

Mi sono guardata attorno in libreria, cercando qualcosa da leggere. Ho sfogliato un po’ di pagine qua e là, indecisa. Poi ho notato questo libro. La copertina ha richiamato la mia attenzione, così chiara, così delicata. Un volume corposo. L’ho afferrato subito. Ho dato una lettura rapida all’incipit e ho cercato informazioni sulla trama e sull’autrice. Ho sorriso. Per quel poco che avevo appena scoperto, dentro quel romanzo c’era una grossa fetta delle cose alle quali pensavo da settimane. Forse da mesi.
Cavoli, è proprio vero che a volte sono i libri a scegliere te.

Ho comprato all’istante Seni e uova di Mieko Kawakami, edito da e/o edizioni.
È da un po’ che mi frulla in testa questo fatto del tempo che passa, del corpo che si trasforma, delle cose che cambiano e modificano il tuo punto di vista e il tuo modo di stare al mondo.
Seni e uova racconta tutto questo attraverso la quotidianità di Natsume Natsuko, aspirante scrittrice con un passato segnato da lutti e povertà e un presente altrettanto faticoso da gestire.
Ci sono tante storie di donne, dentro queste pagine. Donne vere – di quelle che incontri tutti i giorni – piene di bellezza, difetti e sfumature. Donne che l’attimo prima sono in equilibrio precario e l’istante dopo hanno i piedi ben piantati a terra. E ci sono discorsi molto femminili. Le mestruazioni, l’uso degli assorbenti, la mancanza di un marito o di un compagno, la fatica (e l’orgoglio) di crescere i figli da sole. Ci sono anche i seni richiamati dal titolo (imperfetti, scarni e dotati di capezzoli poco attraenti) e le uova (fecondate, capaci di generare una nuova vita).
Ci sono scelte sofferte e altre prese d’impulso. Ragioni (o pulsioni) per le quali le esistenze delle vite raccontate dalla Kawakami prendono una certa via, una certa inclinazione.
E tu, mentre leggi, ti chiedi cosa avresti fatto al posto delle protagoniste.
Ho trovato pagine nelle quali specchiarmi, altre dalle quali prendere le distanze. Ma niente è dato per scontato e le ragioni dei personaggi crescono e sfioriscono seguendo il corso delle stagioni e delle necessità che la vita presenta. Alcune scelte restano, altre si fanno strada verso nuove realtà, incrociando orizzonti inesplorati.
C’è la delicatezza dei ricordi, dei rimpianti, delle cose belle che svaniscono e lasciano un vuoto immenso. Le nocche che battono su una porta che non si aprirà mai, un grembiule rosso, giocattoli abbandonati.
Ci sono i toni accesi della rabbia e della paura. Lo stomaco vuoto, le frasi urlate, la solitudine.
E sopra ogni cosa, poi, si avverte il peso del tempo. Sul viso, nella luce degli occhi. Lungo le strade, nel centro città – insegne che cambiano, negozi che chiudono – e nelle periferie.
Da qualche parte, però, galleggiano ancora nell’aria gli odori di una volta. Basta riaccendere un ricordo per sentirli di nuovo. La lavanderia sotto casa, i bagni pubblici, il piccolo locale nel quale si era soliti festeggiare i momenti importanti. Ho pensato ai posti che conoscevo e non esistono più. Alle case che frequentavo e nelle quali non ho mai più rimesso piede. Agli androni dei palazzi, alle rampe di scale che avrei potuto salire a occhi chiusi e alle strade – sempre quelle, sempre rassicuranti – che attraversavo dando per scontato che le avrei attraversate per sempre.
Nel romanzo ci sono anche gli uomini, per dirla tutta. Ma si tratta di uomini inaffidabili, inconcludenti, irascibili, incapaci di comprendere le donne. Non tutti, no. C’è qualcuno che porta una luce sana, sincera.

Presterò questo libro a qualche amico. Voglio sapere cosa ne pensa un uomo, quali pensieri lo attraversano capitolo dopo capitolo. Non per trovare risposte, non le voglio, ma solo per provare a entrare nella pelle di un altro. Del resto Seni e uova non offre risposte, non consegna pensieri preconfezionati, ma apre la mente a una miriade di possibilità. Ognuno, poi, è libero di scegliere da quale parte stare.