Perfidia

di Robespierre Capponi

«Ha scoperto la vera Quinta Colonna. E non è quello che pensa la gente».

Chi è l’uomo bianco con il pullover viola? È quello che ci si chiede nelle 882 pagine di Perfidia di James Ellroy, il primo libro del nuovo quartet dedicato a Los Angeles, pubblicato da Einaudi editore.

Il dottore della scientifica Hideo Ashida, il sergente Dudley Liam Smith, il capitano “whiskey” Bill Parker, ed io ci stiamo rompendo la testa a forza di chiedercelo: chi è l’uomo bianco con il pullover viola?

Il suono di una moltitudine di relazioni cellulose aleggia ancora nell’etere, lo si può avvertire anche tra queste pagine digitali, è sufficiente appiccicare l’orecchio allo schermo come sto facendo io in questo momento: sì, sento l’eco del crepitio di sinapsi, sono ancora lì a bisbigliare del come e del quando e del perché.

Il contesto dove ci troviamo è presto detto: Los Angeles. È il 1941, tempo di guerra: al di là dell’Oceano Atlantico, l’Europa è quasi tutta in mano ai nazifascisti, a resistere sono rimasti solo gli inglesi e i comunisti di ogni latitudine. I giapponesi, invece, hanno avuto la stravagante idea di attaccarci a Pearl Harbor, affondando la flotta del Pacifico. Praticamente un suicidio: gli faremo il culo!

A proposito di suicidio, proprio il giorno prima dell’attacco, cioè il 6 dicembre 1941, una intera famiglia di giapponesi è stata trovata morta nel proprio appartamento, pare per via di un suicidio rituale, un seppuku e qualcosa, una di quelle pratiche strane dei giappi. I corpi senza vita sono stati ritrovati sventrati uno accanto all’altro sul pavimento del soggiono. Di fianco ai corpi senza più budella, quattro spade sporche di sangue: è davvero un suicidio collettivo o un crimine? Grazie ad alcune analisi della scientifica che non sto qui a spiegare, propendiamo per la seconda ipotesi. Il capo della polizia Jack Horral vuole dare molto spazio a questo caso poiché i giapponesi, dopo l’attacco infame a Pearl Harbor, sono nell’occhio del ciclone. In più Jack vuole che si trovi un assassino giappo, vuole che lo si dipinga come un mostro, per poi darlo in pasto all’opinione pubblica collaborazionista, e lo vuole entro capodanno.

Non passerà molto tempo che interneremo i cittadini americani di origine giapponese per tutto il periodo del conflitto mondiale; ed entreremo in guerra a fianco degli alleati contro il famigerato Asse. A dir la verità, avremmo preferito allearci a Hitler e al suo compare Mussolini piuttosto che ai comunisti, poiché il nostro grande nemico sono i rossi, non certo i nazifascisti, anche se hanno un po’ esagerato con quei giudei…

Zompo un attimo fuori dal libro, cioè dal 1941, per far ritorno all’attualità, cioè il presente di fine pandemia e di lotte globali contro il razzismo e soprattutto contro la violenza della polizia. Pochi giorni fa mi è venuta voglia di scrivere “ACAB” sul muro e l’ho fatto (volevo scrivere il più criptico “1312”, ma poi ho optato per la chiarezza). Ora che ci penso mi fa un po’ specie aver avuto come compagni di avventura dei poliziotti (peraltro senza scrupoli), ma la letteratura spesso conduce dove non te lo saresti mai aspettato, ad apprezzare scrittori conservatori o a identificarti persino con un sergente razzista della polizia di Los Angeles, chiamato Dudley Liam Smith per il quale io sono solo un wop, un guappo. Il Dudster non contiene neppure un atomo di sensibilità, eppure mi ha fatto venire voglia di diventare un suo protetto, di sapere che effetto fa ammazzare un giappo a bruciapelo, di riempirmi di benzedrine e altre cose che non si possono dire, tipo andare a letto con Bette Davis. Mi è venuta voglia anche di provare l’oppio nella pagoda di Zio Ace, per evadere dalle inutili tribolazioni quotidiane, dal malvagio passato presente futuro, e da me stesso. Mi è venuta anche voglia di fare soldi in modo illecito, solo che non so come si fa. Fottesega di quello che vanno dicendo i Proverbi 3, 31: «Non invidiare l’uomo violento e non imitare affatto la sua condotta».

No, non so chi sia l’uomo bianco con il pullover viola, e neppure m’interessa, cioè sti cazzi, io sto con Bette Davis. Ho appena dato un bigliettone da 100 dollari al cameriere in livrea. C’è anche John Wayne nella sala, ha baciato il braccio di Bette e io ho preso in mano la pistola per ficcargli una pallottola nelle cervella, non so neanche perché non l’ho fatto. Poi Bette mi ha spezzato il cuore buttandomi addosso queste parole qui: «Come osi pensare che io e te siamo più di una triviale nota a piè di pagina di questo orribile periodo»… Ho fatto un casino.

Ci sarebbero un sacco di altre cose da dire su questo libro molto denso, per esempio cosa avrebbe da dire su tutta questa storia Kay Lake, la ragazza cazzuta della prateria di Sioux Falls, nel South Dakota, scappata a Los Angeles da un «destino insufficiente», ma questo lo lascio scoprire al magnifico lettore.

Vorrei concludere dicendo che secondo me leggere l’Ellroy di Perfidia è molto più appassionante di qualsiasi serie del cazzo su Netflix (vabbè, a parte Better call Saul).
Vorrei anche ringraziare James Ellroy, grande scrittore, per avermi fatto compagnia in questa strana pandemia, ma soprattutto vorrei ringraziare chi mi ha prestato questo libro, cioè una mia amica di Parigi, che però adesso si è trasferita a Lione. Ora che ci penso, ho rischiato una multa salata per prendere possesso di Perfidia, ho varcato le cosiddette colonne d’Ercole della pandemia, cioè un chilometro senza autocertificazione, per averlo; ho infranto la legge e ne è valsa davvero la pena.

Momenti straordinari con applausi finti

di Sara Maria Morganti

 

Insomma alla fine gli amici del blog non mi hanno insultata. Anzi, mi hanno detto che a loro la recensione non era dispiaciuta e che se ne avevo un’altra pronta potevo anche mandargliela. Figuriamoci, un’altra recensione, già pronta poi. Proprio no.

Poi però dentro di me mi son detta: bella questa storia che faccio le recensioni come mi pare e gli amici mi danno uno spazio per condividerle, bella questa storia. Tanto che un po’ mi è venuta voglia di provare a scriverne un’altra, di recensione.

E allora eccomi qui, con il libro perfetto tra le mani, appena finito tutto d’un fiato, così che ancora non ho dimenticato niente. Grande, bianco, con una faccia tratteggiata in copertina, che ha un punto interrogativo mimetizzato fra la barba ed è senza la bocca, forse perché nascosta dal microfono, chi lo sa. E il titolo scritto a mano: Momenti straordinari con applausi finti. Io pensavo che quella faccia era proprio quella di Gipi, ma poi ho letto il libro e ho scoperto che invece era quella di Silvano Landi, che però io sospetto assomigli molto a Gipi. Silvano è il protagonista di questa storia illustrata, ma forse sarebbe più giusto dire che il protagonista è l’interno del suo cervello, pieno di cosmonauti, soldati, uomini primitivi, bambini luminosi, ma anche nero, fango, pornografia e mamme morenti.

Io personalmente penso che ogni tavola di questo albo a fumetti sia un viaggio, ma che dico ogni tavola, ogni frame. Ho studiato un po’ prima di scrivere questa recensione, spero che le parole siano giuste. Ma insomma, quello che intendo dire è che ogni colore di ogni disegno sembra il primo colore mai visto nella vita. Roba che tu guardi il naso dell’uomo primitivo e dici “boh, io non lo so se l’ho mai visto un rosso così”, oppure guardi l’acqua e dici “eccolo! il brodo primordiale!” E questa cosa un po’ ti commuove per forza, perché è troppo bella da vedere. E oltre a questo c’è la storia, che è come quelle storie che piacciono tanto a me, dove non succede nulla. Silvano deve fare le sue serate tipo stand-up comedy ma se le dimentica perché pensa sempre alla madre che sta morendo e al fatto che non è abbastanza dispiaciuto per questo, anche se io credo che sia proprio il contrario. Anzi, ne sono sicura, perché io il dolore di Silvano l’ho sentito fortissimo, per esempio a pagina 83, in basso a sinistra. Lì c’è un piccolo riquadro dov’è disegnata la madre al mare, sotto l’ombrellone. I lineamenti non ci sono, ma si vedono bene i capelli corti, gli occhiali da sole, e il pezzo sopra del costume. E tutti i colori sono perfetti, come quelli di un ricordo marino un po’ sbiadito. Poi ci sono tre piccoli riquadri, con scritte dentro queste parole: nel primo “SCOPRIRTI”; nel secondo “ANCHE ALL’OMBRA DELL’OMBRA”; nel terzo “ANCHE NEL GIALLO”.

Poi se uno lo legge tutto il fumetto questo riquadro diventa più comprensibile di così, ve lo assicuro, ma a me mi ha colpito così tanto che ve lo volevo descrivere da solo. Penso che ci sia molta perfezione lì dentro.

Io devo confessare che Gipi lo conoscevo già, perché avevo letto anche LMVDM e La terra dei figli, e anche se non mi ricordo bene cosa succedeva, mi ricordo che mi erano piaciuti parecchio. Quindi forse sono partita che ero già felice di leggere l’ultimo fumetto di Gipi, ma sono convinta che anche se non avessi mai sentito parlare di lui prima in vita mia né dopo mai più, questo fumetto mi avrebbe comunque lasciata con le lacrime negli occhi come infatti ha fatto.

Dunque qui finisco, e ringrazio Gipi e Rita che me lo ha prestato.

Con in bocca il sapore del mondo

di Giovanni Di Prizito

‹‹Le parole hanno la mobilità di una marionetta, un’ossatura invisibile di legno e di fil di ferro, come quella che sostiene i pupi siciliani. È tutto un affare di chiodi e cordicelle.››

Succede che, certe volte, le parole sono come le medicine. E come certe medicine, più ne prendi più ti senti meglio. Succede che, con l’occhio clinico, è necessario adocchiare quelle giuste, di parole. Quelle indicate, quelle adatte al malanno insomma. Questo succede.

Questo mi è successo in una fase precaria dell’animo non più tardi dell’isolamento passato. Una di quelle fasi in cui non sai bene stare al mondo. Una di quella fasi che è meglio se non ti succede, specialmente nell’appartamento dentro all’isolamento – sai che paturnie! Comunque alla fine le ho adocchiate, quelle giuste. E con le parole mi ci sono curato.

Allo stesso modo delle medicine. Più ne prendevo, più non mi volevo fermare, per nessuna ragione di questo mondo, nemmeno per quella cosa che mi aveva fatto isolare da tutto e sopra a cui tutti, ma proprio tutti, parlavano e scrivevano –  piripì parapà piripì parapà. No. Per nessuna ragione di questo mondo avrei voluto smettere di assumerle. Altro che guanti, mascherine e pazienti zero.

Dieci. Dieci dichiarazioni d’amore che Fabio Stassi – Primario della Parola e autore di Con in bocca il sapore del mondo, Edizioni Minimum Fax 2018 – somministra a piccole ma grandi dosi, una o tutte le volte del giorno, prima, durante e dopo i pasti ai suoi pazienti immaginari ma anche reali. Fabio Stassi fa ri-vivere dieci Poeti del Novecento immaginandoli, facendoli immaginare, in prima persona a raccontare la loro storia, le loro ossessioni, i loro desideri, le loro allegrie e i loro dolori. Fabio Stassi, dentro all’isolamento, mi dava la possibilità di guarire. E finalmente di parlarci, con i Poeti.

‹‹[…] Gli uomini che prendono sul serio gli altri mi hanno sempre fatto compassione, quelli che prendono sul serio se stessi mi facevano sganasciare›› mi diceva Aldo Palazzeschi. E allora cominciavo a capire che forse il male dell’anima dipendeva proprio da questo, dal non riuscirne a ridere. Era questo che non mi era mai riuscito di fare, ridere di me medesimo. ‹‹[…] Le parole hanno la mobilità di una marionetta, un’ossatura invisibile di legno e di fil di ferro, come quella che sostiene i pupi siciliani. È tutto un affare di chiodi e cordicelle›› aggiungeva Salvatore Quasimodo. Ebbene, mi sentivo sostenuto anche io, mi sentivo come un pupo siciliano.

Come un pupo siciliano mettevo in scena la mia storia, la mia tragedia. I Poeti mi manovravano mentre io mi abbandonavo alle loro premure e alle loro cordicelle. E le parole agivano, dentro di me, mentre Guido Gozzano mi raccontava dei suoi turbamenti, che erano anche i miei. ‹‹Il mio problema è sempre stata la gravità, questo sentirmi sempre sbagliato, fuori stagione, fuori norma, fuori misura. Troppo pesante per le frivolezze del mondo e dei tempi, e troppo leggero per la realtà.››

Correndo, senza pararmi nemmeno per il servizio igienico, arrivai fino alle ultime. Quelle della Poetessa, quelle sui matti. ‹‹[…] Al manicomio›› diceva lei, ‹‹si è tutti impreparati. […] Fu solo quando mi ci trovai che credo di essere impazzita per davvero di terrore […] Per i matti non c’è comprensione […] Perché la follia, per gli occhi del mondo, è una mala metafora, non una malattia. È una metafora della colpa. Una responsabilità. […]››

Tutto, intorno a me, possedeva qualcosa che non la so dire, qualcosa che non la so spiegare con il rumore dei tasti. Qualcosa di assai. Mi sentivo addosso come una stranizza d’amuri. Quelle parole continuavano a muoversi, una per una mi sostenevano e mi facevano guarire, una per una si prendevano cura di me. Mentre io, anche se le pagine erano finite, continuai a parlarci. Con i Poeti.

La rivoluzione della luna

di Robespierre Capponi

‹‹Finalmenti ‘ncontrava a ‘na fìmmina che, oltri che ad aviri ‘n sommo grado tutti l’attributi fimminini, possidiva macari un gran paro di cabasisi››

Circondato da quattro mura, ho tra le mani un libro di Camilleri che s’intitola La rivoluzione della luna. Dentro questo libro, uscito nell’anno del signore 2013 per Sellerio editore Palermo, è custodita una storia che sembra inventata di sana pianta ma che invece è realmente accaduta. Camilleri conta che nel milli e seicento e sittantasetti la Sicilia fu governata per 28 giorni da una donna! Nel 1677 Eleonora di Mora fu chiamata a governare la Sicilia dalla morte improvvisa del Viciré, suo marito. Ventotto giorni (!), lo stesso tempo che ci impiega la luna a fare il giro dello zodiaco, le bastarono a portare la giustizia in una terra di ’ngiustizia, di approfitto, di pripotenza e di arbitrio. Ci volle una donna per calmierare il prezzo del pane!

D’emblée penso al concetto di casa, e cioè se sia diventata una prigione in questi tempi di pandemia qui o se lo è sempre stata. Mentre il mio ragionamento è diretto chissà dove, Camilleri mi assesta un certo scapaccione come a voler riprendersi l’attenzione. Mi ritrovo l’agenda piena di rendez-vous con il malaffare, l’innamoramento del potere, la difficile condizione delle donne; e il “nefando crimine”. Non ho neanche il tempo di dire “che fortuna!”, che mi trovo ad averci appuntamento anche con la giustizia sociale e il casto amore. O sì! Tale e quale a quello che prova il protomedico Serafino nei confronti di donna Eleonora, descritta come solo Andrea Camilleri è in grado di fare, ossia con la sua lingua terragna, fatta di parole che prendono forma fino a diventare nitide, adamantine, dove non c’è neanche bisogno del vocabolario figurato per figurarsele.
Per lo scrittore di Porto Empedocle donna Eleonora è di una “biddrizza da fari spavento”… Può sembrar strano ma mi sento addosso i suoi occhi (“e che occhi”). La descrizione di Camilleri è così potente che ho la netta sensazione che donna Eleonora mi appaia, perciò mi ritrovo, pieno di rossore e sgomento, ad allungare la mano come se fossi un cristiano assillato dalla prova.

La pregnanza della lingua di Camilleri, che per intanto ha preso tutta la mia attenzione, si manifesta in modo chiaro quando lo scrittore mi narra di un certo Vescovo che abusa dei minori. Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori non è semplicemente un Vescovo che abusa dei minori, nossignore! Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori è un Vescovo che lo mette ‘n culo ai picciliddri! Qui è come se le parole di Camilleri smascherassero il Vescovo in tutta la sua nefandezza. Lo scrittore siciliano si prende la responsabilità di farmi vedere l’orrore, si catafotte nel profondo della mia ripugnanza. Alza il sipario della schifezza, dove essa fete così tanto da togliere l’onore. Con le sue parole ineguagliabili Camilleri si carica di coraggio e ci dà un pugno al Vescovo, come se fosse un Papa a cui hanno offeso la madre; le sue parole leniscono il mio stomaco malandato e vendicano tutti i soprusi del mondo.

Andrea Camilleri ha questo potere di rendere vive le parole, è per questo che non può morire mai. Con lui il significato non è mai stato così significante, con lui le parole sono limpide come il Canal Grande ai tempi del covid 19. Camilleri è letteratura, e fa lo stesso effetto che i semi di finocchio fanno a una tipa che ho conosciuto: stra-bene! Adesso io vorrei che mi raccontasse un’altra storia. Un’altra storia ancora. Un’altra storia che mi faccia evadere da questa prigione chiamata casa. Leggere Camilleri è panacea di tutti i mali.

 

 

Fiesta

di Giovanni Di Prizito

‹‹Oh, Jake›› Brett disse. ‹‹Noi due saremmo stati così bene assieme.››           

‹‹Già›› dissi io ‹‹non è bello pensare così?››

Qualche estate fa mi trovavo a Pamplona in calle Estafeta, la via dell’encierro, quella dove corrono i tori prima di arrivare nell’arena e se non stai attento ti becchi pure qualche incornata. E le corna, si sa, non fanno mai bene. Camminando, beatamente accoppiato, cercavo l’odore del primo mattino.

Un mese prima, passeggiando sotto ai portici di Strada Maggiore, mi parai dinnanzi agli scaffali dell’usato della Libreria Ceccherelli e dal mucchio tirai fuori Fiesta, titolo originale The Sun also Rises. ‹‹La prima dichiarazione d’amore di Hemingway alla Spagna›› c’era scritto sulla copertina. Il binomio mi eccitava e l’odore della carta ingiallita mi provocò un brivido di piacere.

Camminando ancora un poco da calle Estafeta presi le viuzze del Casco Viejo fintanto che arrivai in Plaza del Castillo. Subito, senza perdere tempo, entrai dentro al Café Iruña, quello della storia. Quello dove Brett, anche lei senza perdere tempo, aveva abbordato il giovane torero Pedro Romero: ‹‹Dio! […] mi sento tanto vacca.›› Quello dove Jacob – detto Jake – Barnes e il resto della ghenga si sedevano sulle ‹‹comode poltrone di vimini›› e si mettevano a guardare, sotto al fresco dei portici, la plaza. ‹‹Faceva caldo, ma la città aveva un fresco odore di primo mattino, ed era piacevole star seduti al caffè.›› Ebbene, volevo sentirlo anche io quell’odore, volevo fare come loro. E mi accomodai.

Il naso: più lo ficcavo dentro, più capivo che era stato un peccato non ficcarlo prima, quelle pagine ingiallite trasudavano odore di ‹‹cuoio fresco e catrame›› e ‹‹vino del paese››. Come un continuo e oggettivo piano sequenza, così Hemingway mi pareva trattare la parola scritta, mai una di troppo. Mentre io, pagina contro pagina, continuavo a eccitarmi. Altro che il corpo a corpo! Non la riuscivo a domare, la voglia. Mi sentivo come Brett in faccia al torero, ‹‹come posso fermare la cosa? Io non so fermare le cose. Capisci questo?››. E come un toro loco correvo a testa bassa per le vie di Pamplona incollato alla storia.

Giustappunto. Annoiati da Parigi e dalla bohème intellettuale di Montparnasse degli anni venti, Jake e gli altri decidono di andare a Pamplona a cercare la cura alla malattia di vivere. La cercano in mezzo alle alture basche e in mezzo a quelle alture, tra notti insonni, sbornie clamorose, battute di pesca e dialoghi memorabili come solo iddio sceso in terra sa, trascorrono i giorni della fiesta, quella di San Firmino. Giorni in cui ‹‹fin dal primo mattino i contadini erano nelle osterie›› a impiegare ‹‹il valore del loro denaro›› e la ‹‹paglia per terra›› e i ‹‹truogoli per bere contro il muro›› e le ‹‹mangiatoie di legno›› e i ‹‹muri di pietra bianchi e lavati›› e l’alcol e il sesso, tutto insomma, ‹‹pareva una cattiva commedia.›› Giorni in cui ‹‹dalle finestre delle case si affacciavano teste›› che non aspettavano altro che i tori. Giorni in cui Brett era irrefrenabile e mai contenta, nonostante l’amore di Jake e i suoi – buoni o cattivi? – propositi. ‹‹Ho trentaquattro anni, capisci. Non diventerò una di quelle vacche che rovinano i ragazzi.›› Con Jake, Brett e gli altri quei giorni là ci stavo pure io, seduto sopra al vimini a guardare la plaza. A mescolare realtà e finzione.

Come un cane randagio fiutavo ogni odore, dal caffè appena fatto ai cornetti ancora caldi alla merda di piccione. Ogni momento poteva essere buono per sentirlo. Lo cercavo in tutti i modi, volevo quello fresco del primo mattino. Lo stesso che sentiva Jake, lo stesso di quei giorni là. Ma più fiutavo e più lo capivo, quell’odore viveva solo dentro a quelle pagine ingiallite.

La forza di gravità

di Sara Maria Morganti

 

Molto difficile recensire un libro. Molto. Si dovrebbe essere in grado di far venire voglia di leggerlo, senza però spiattellare subito le cose che fanno venire voglia di leggerlo. Io non ho mai recensito un libro, si capisce, ma qui mi hanno detto che è uno spazio sicuro, dove le recensioni si fanno come vogliamo, e allora provo a unirmi con piacere. Poi però magari mi cacciano pure da qui e allora capisco che recensire non è cosa per me.

Un altro problema in generale nella vita ma che diventa particolarmente serio se devo recensire un libro è che ho una memoria pessima. Non mi ricordo mica bene le storie che leggo. Riesco a dire se un libro mi è piaciuto o no solo per delle cose che mi ha lasciato dentro, ma dire bene quelle cose poi non so.

Ad esempio, avevo iniziato a recensire un libro che avevo letto durante il confinamento, un libro bello sulla paura e sul ghiaccio, sulla solitudine e sul senso dei viaggi, ma poi niente, mi ricordavo solo dei cavalli con le teste sproporzionate giganti, quindi ho smesso.

Allora adesso provo con quest’altro, che ho letto prima e che s’intitola La forza di gravità. E la prima cosa che vorrei dirvi è perché s’intitola La forza di gravità, ma non posso perché forse è un po’ il senso di tutto il libro e allora ve lo rovinerei. Ma vorrei comunque dirvi che ho letto altre recensioni di questo libro, prima di provare a scrivere la mia, e tutte dicono che la forza di gravità che intende Piersanti, che ha scelto questo titolo qui, non è quella che fa cadere la mela a terra dall’albero, bensì quella che spinge le persone ad avvicinarsi e allontanarsi nella vita. E invece secondo me no! Perché secondo me buona parte di quella forza di gravità lì è proprio quella fisica, e anche se non fa cadere una mela, fa cadere qualcos’altro e vi assicuro che è qualcosa di grosso! Qualcosa che cambia tutti i ruoli dei personaggi e li ribalta, facendo diventare l’adulto il bambino e viceversa.

Poi vi posso anche dire che i personaggi di questo libro non si dimenticano facilmente e mentre lo leggi ti sembra di essere lì con loro, accanto a Serena che porta a spasso molti cani e si vergogna del suo mento, accanto al Professore che non insegna più, ma a lei vuole bene davvero e la aiuta a preparare la maturità e poi la prova di ammissione a Medicina, con tutta la sua genialità cinica. Tipo per intendersi il Professore è uno di quelli che nel bel mezzo della merenda è capace di chiedere a Serena se non siano più interessanti le cellule delle persone che le possiedono. E lei giustamente gli risponde che sono due cose diverse, ma lui insiste: «Puoi studiare proficuamente anche la cellula di un cretino, questo voglio dire. Poi l’individuo è libero di usare miliardi di complesse connessioni per parlare di calcio o di politica… Ma perché parlano? Perché si scambiano foto dei loro sederi?». E alla fine c’ha anche ragione il Professore, però che tranchant, no?

Insieme a loro due ci sono anche molti altri personaggi che gli gravitano attorno, più o meno vicini, più o meno reali. Perché poi in questo libro ci sono anche un sacco di passaggi strani, davvero al limite del sogno, onirici mi pare che si dica, e non si capisce più bene cosa è successo davvero e cosa solo per finta. Tipo che a un certo punto il Professore vede nel cielo un suo vecchio amico, Roberto, «con la cravatta svolazzante per motivi gravitazionali ma per nulla privo di eleganza nel suo leggero impermeabile blu scuro che accarezzava le montagne». Insomma, quel Roberto lì, con le scarpe giganti nel mare, è bello che morto da un pezzo, quindi si capisce che quella del Professore è una visione in piena regola! Ma mentre stai leggendo questi voli verso l’incredibile non ci fai nemmeno caso, tanto le parole si susseguono felici, e arrivi e alla fine e ti ritrovi col libro poggiato in grembo e pensi: come?

Insomma, più o meno queste sono le cose che mi ricordo, poi passate attraverso il filtro del “posso dirlo senza rovinare niente”. A me comunque questo libro mi ha lasciato delle cose, quindi penso di aver finito la recensione.

 

 

Il condominio

di Luca Palladino

«C’è troppa ostilità. C’è sempre stata, ma ora viene fuori. La gente se la prende con i bambini…»

«Chi non lo ha mai fatto non si perda il piacere della paura di leggere Ballard…», recitava così uno degli ultimi consigli del Menta, prima che un utente lo facesse inalberare a tal punto da uscire dal gruppo Telegram che aveva fondato, e dalle nostre vite. Dopo un suggerimento così, non potevo certo perdere l’occasione di leggere James Graham Ballard. Perciò, appena ho avuto il controcazzo di andare in libreria mi sono fiondato negli spazi riservati al genere «fantascienza» (lo scrittore inglese è definito un «innovatore della letteratura fantascientifica»), e, all’altezza della lettera «B» di Ballard, privo di pudicizia ho ficcato la mano nello scaffale tirando fuori Il condominio, edito dai tipi di Feltrinelli. Quando ho iniziato a sfogliare il libro, l’incipit non lasciava alcun dubbio sul fatto che avrei trovato il piacere della paura di leggere Ballard: «Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti verificatisi in quell’immenso condominio nei tre mesi precedenti». Il libro, che tratta della vita piombata nella barbarie di certi inquilini di un grattacielo elegante di Londra, l’ho senz’altro comprato e se sapevo che di lì a poco sarebbe scattato il famigerato lockdown, ne avrei presi anche di più, di libri. La verità è che ho sempre solipsisticamente sognato di prevedere il futuro, soprattutto per azzeccare le scommesse del pallone e diventare ricco come Beef Tannen in Ritorno al futuro. Ma non è ancora mai successo.

Ad ogni modo, iniziando la lettura ho avuto la strana sensazione di non essere dentro un libro di fantascienza, ma, al contrario, percepivo una stramba sensazione di attualità: «Di tanto in tanto i suoi vicini uscivano sul balcone e lo guardavano in cagnesco, come se disapprovassero il suo atteggiamento rilassato». Pareva che quello che mi andava raccontando Ballard, esistesse per davvero, anzichenò. In effetti, là fuori, nella cosiddetta vita reale, il delatore al balcone si era guadagnato il plauso dei compatrioti e le prime pagine dei giornali mainstream: «Bravo!», gli avevan detto. Là fuori si stava consumando una certa gara per aggiudicarsi il primato nel denunciare il passeggiatore, il corridore, il fannullone. Il tizio affacciato al balcone era diventato l’eroe nazionale: non ci si poteva manco più rilassà, bisognava soffrire, bisognava fare la vita di merda. Persino un virologo famoso non si esimeva dal denunciare certi accadimenti. L’esperto in virologia aveva postato, via twitter, una foto datata per dimostrare alla sindaca che sul lungotevere c’erano parecchi potenziali untori. La sindaca, ligia ai suoi doveri di sindaca, aveva ringraziato per la segnalazione e, neanche troppo velatamente contrariata dai suoi concittadini, rincuorato il bravo virologo: «Inviato sul posto due pattuglie della Polizia Locale di Roma Capitale», aveva scritto.

Fuori e dentro il libro l’odio nei confronti del proprio vicino si poteva, era concesso, era finalmente libero di manifestarsi. Il lockdown nella vita reale e una serie di black-out nel libro, avevano fornito l’occasione ai cittadini e ai condomini di lasciarsi andare ai loro impulsi primordiali più meschini, ai loro malesseri psichici irrisolti. L’odio nei confronti del proprio simile, delle classi inferiori e persino dei bambini (ma non dei cani), era à la page sia dentro il libro che fuori. «I nostri vicini hanno tutti avuto un’infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perché non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi…», mi diceva Ballard nel frattempo. Inscatolato nel condominio, avvertivo una certa paura di mettere il naso fuori dalla porta, e di voltare pagina.

Ciononostante, ho trovato il coraggio di aprire la porta per andare a gettare il pattume. Tornato nel condominio senza particolari incidenti (ho avuto a che fare solo con l’abbaiare di un cane e qualche occhio torvo), intrepido, ho capovolto pagina. Ho tirato innanzi, come si suol dire! Non posso negare che il suono dello scorrere della carta mi ha procurato un «illecito brivido di piacere». Ero un inquilino di un grattacielo elegante in una zona residenziale londinese impegnato nel resistere un minuto più degli altri, a mormorarmi che «Finché senti il profumo dell’aglio, va tutto bene»; mi sentivo un gagliardo scalatore sociale dai grossi genitali, pronto a tutto per raggiungere l’attico; ero un potente architetto sul tetto del grattacielo ad aspettare i miei nemici e a decifrare il linguaggio dei gabbiani. Il sesso era stranamente libero, il potere delle donne una reale possibilità e mangiare cani alla brace una voluttà.

In quel tempo fantascientifico ma reale, tutto quello che poteva succedere è successo.

 

La macchina del vento

di Giovanni Di Prizito

‹‹Se il tempo in cui ti è dato vivere ti sta stretto e ti angoscia, c’è forse da stupirsi che la mente cominci a vagare e sogni altri tempi, e incredibili macchine con cui raggiungerli?››

A Ventotene ho passato un capodanno. Un poco strano. Non ci stava nessuno, solo io, la compagna e il mare. A Ventotene tirava un vento che spostava tutta l’aria. Un vento che pareva la fine del mondo. Già mentre camminavo me ne resi conto, non si trattava di un posto qualunque. No. Non si trattava solo di uno scoglio nel Tirreno. Nemmeno. Più camminavo più me ne rendevo conto: in mezzo a quelle viuzze, deserte e fangose, aleggiava qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che teneva a che fare con la Dimensione. Qualcosa che non capivo. A Ventotene mi pareva di stare in un altro Tempo.

Anni appresso mi trovavo alla Ubik di via Irnerio, Bologna: portici, colonne e asfalto. Altro che viuzze. Wu Ming 1 presentava la sua ultima fatica, La macchina del vento, Edizioni Einaudi 2019. Lui parlava, mentre io ci volevo tornare a Ventotene.

Wu Ming 1 parlava di quell’isola, dell’isolamento, del confino. L’isola che quando ti giravi, in ogni momento e in ogni direzione, vedevi il mare. L’isola dei cervelli – politici e antifascisti – confinati. Wu Ming 1 faceva nomi e cognomi, nomi e cognomi che mi suonavano già. A Ventotene, oltre al vento, le viuzze, la compagna e il mare, ci stava pure una piazza e una targa attaccata al muro.

‹‹In quest’isola, nel confino imposto dal regime fascista, i primi federalisti italiani Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli […] scrissero nel 1941 l’appello che ancor oggi porta il nome di Manifesto di Ventotene […] per un’Europa libera e unita.››

Wu Ming 1 continuava a parlare. Diceva che per scriverla, la storia, aveva camminato avanti e indietro per l’isola. L’aveva tracciata come un topografo, come avevo fatto io anni addietro. Wu Ming 1 parlava della Dimensione, del Tempo, e a me non mi pareva vero! Infatti mica ci pensai troppo, e di corsa mi ficcai dentro alla Macchina.

Erminio Squarzanti, narratore e confinato di fantasia, racconta di quei cervelli. Quelli dell’Europa libera e unita. Quelli delle ‹‹classi popolari che da sole non saprebbero mai quel che vogliono e sarebbero sempre bisognose di capi che glielo spieghino.›› Quelli dell’Europa ‹‹calata dall’alto perché le masse non sono mature […]››. Almeno secondo Rossi e Spinelli. Perché a Erminio, la calata dall’alto, proprio non lo convinceva. Sicché.

Erminio Squarzanti racconta la vita confinata. Il Tempo che scorre. Quello esasperante del quotidiano – l’appello, il pranzo, la cena e l’arrivo della posta – e quello strano dell’isola. Un Tempo che pare andare per conto proprio. Giacomo Pontecorboli, fisico confinato e altra fantasiosa invenzione, se ne rende subito conto. E subito lo prendono per matto. ‹‹[…] Pontecorboli era un folle, uno dei tanti che arrivavano al confino già matti o inclini a diventarlo […]››. Anche Giacomo si rende conto che in mezzo a quelle viuzze c’è qualcosa di grosso, qualcosa che tiene a che fare con la Dimensione. ‹‹Qui a Ventotene c’è qualcosa che contrae costantemente il tempo. Un fenomeno inaudito, Erminio […]››. Era chiaro. Io e Giacomo avevamo una cosa in comune, ‘na cosa assai grande.

Ci stavo comodo dentro alla Macchina. Alla massima velocità insieme a Giacomo, Erminio e i migliori, ma anche peggiori, cervelli. Più Giacomo parlava – ‹‹La massa dell’isola opera sul tempo… all’inverso!›› – più capivo. ‹‹[…] Come fai a non capire, Ermi’? […] È l’isola stessa a essere una macchina del tempo. Bisogna solo scoprire se possiamo comandarla!›› Tornava tutto. Io invece volevo solo tornare a Ventotene, alla targa. Li volevo rileggere, quei nomi là. Volevo capirci qualche cosa di più.

La Macchina correva e Giacomo mi parlava di campi gravitazionali, masse inerziali e viaggi nel Tempo. Giacomo ‹‹mi fece una vera e propria lezione di Fisica […] Una lezione tutta per me […]››. Lui diceva che era accelerato, il Tempo, come se da Ventotene, le persone, le cose le vedevano prima. Come se da Ventotene, il Pertini – ‹‹[…] la tessera numero uno del partito.›› – e gli altri compagni già la vedevano la Resistenza. Quella vera.

Loro, i compagni, continuavano a camminare e incontrarsi – ‹‹[…] qui non si fa che incontrarsi […]›› – mentre io non vedevo l’ora di tornare a quel capodanno, a quelle camminate col vento che spostava tutta l’aria, a quel Tempo. Alla compagna che fu. Volevo capire cosa aleggiava in mezzo a quelle viuzze deserte e fangose, qual era la cosa grossa. Ebbene. La Macchina mi ci portò, e lui mi aspettava. Sotto alla targa. No, non mi ero sbagliato. Io, Giacomo, l’avevo già incontrato.

Altri libertini

di Giovanni Di Prizito

‹‹E allora sembra che piano piano tutto passi […] e che quando uno ci ha i cazzi suoi, be’, sono veramente suoi, non c’è da fare un cazzo, manco gli stoici gli epicurei o i filosofi, niente. Non si può impedire a qualcuno di farsi o disfarsi la propria vita, si tenta, si soffre, si lotta ma le persone non sono di nessuno, nel bene e nel male››

L’altra notte ho fatto un sogno, aveva un odore particolare. L’altra notte mi è apparso Pier Vittorio Tondelli. Parlava dei quattro leoni di Piazza San Prospero, ‹‹che di notte è bellissima›› e che sta a Reggio Emilia. Ebbene, l’Emilia, paranoica ma pure ragionata.

Giorni addietro, a pochi attimi dall’isolamento, mi trovavo su un grande telo bianco sopra all’erba di Villa Ghigi, noto parco urbano di Bologna, Emilia anche lei. E non per puro caso ficcai il naso dentro agli Altri Libertini. Edizione Feltrinelli. 1980.

Già mi resi conto, mentre leggevo la prima, la seconda, et cetera pagina di avere tra le mani qualcosa di grosso. Dentro al Postoristoro‹‹luce sciatta e livida, neon ammuffiti›› – insieme a la Giusy, il Bibo, la Molly che chiede cento lire, il Johnny e il Salvino capobanda, in mezzo agli sgabelli del vecchio self service che non funziona più, ci stavo pure io.

Davanti a me, chino sul grande telo bianco sotto un sole che diceva ecchime!, ci stavano invece due baldi giovani che lavoravano sodo. La tromba uno, il sassofono l’altro. Frattanto la lettura fu ancora più lieta. Sotto lo stesso sole il Tondelli mi raccontava le gesta disinibite, le storie. Le raccontava a modo suo, senza fare troppo caso alla didattica. Oscenità e turpiloquio per le bestemmie e il contenuto, disse il procuratore bloccando e sequestrando migliaia di copie pronte alla lettura. Ma poi, correva l’anno 1981, il Tondelli fu assolto da ogni accusa e gli Altri Libertini tornarono liberi.

Lui, sotto a quel sole, continuava a raccontarmi le storie. Quelle della vita, quelle dove si fa all’amore, quelle dei buchi sopra alle braccia. Le storie della Bassa padana. Le storie dell’unico sogno sempre sognato, la fuga, e forse rimasto in quegli anni là. Quelli dell’impegno. Politico. ‹‹Chiedi a settantasette se non sai come si fa.››

In tutto sei. Sei storie. Sei episodi. Sei pizzichi. Al centro – màs o menos – l’esplorazione sentimentale di un poco più che ventenne. La passione rovente, la scoperta di sé e la paura del sentimento. Storie come punture. Storie della provincia. Da Correggio al Mare del Nord. Su quel ‹‹rullo di asfalto››, che quando le vedi, ‹‹le luci del casello d’ingresso››, e quando lo senti, ‹‹l’odore del Mare del Nord››, ti fa venire la voglia di prenderla anche a te la ‹‹ronzinante cinquecento con su gli scoramenti e dentro tanto vino e in bocca tanta voglia di gridare››. Su quel ‹‹rullo di asfalto›› che sta a cinque chilometri da Correggio, l’Autobrennero, ‹‹che è l’Autobahn più meravigliosa che c’è […] entri a Carpi ed esci lassù››. E poi il Viaggio, quando ‹‹la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia››, quando Gigi, ad Amsterdam, ‹‹è immobile con gli occhi spalancati verso il soffitto […] ma non risponde, gli sfugge soltanto un sorriso antipatico››, quando ‹‹Gigi comincia così coi buchi››. E poi tutto il resto. Sei storie. Sei episodi. Sei pizzichi. L’iniziazione all’amore, tutto.

Ebbene, i baldi giovani continuavano a fiatare, il sole a picchiare duro e io c’entravo dentro, a quelle pagine. Mentre il telo scavava dentro all’erba. Tutto entrava dentro a tutto. E allora, ignaro del venturo isolamento, la sognavo pure io. L’Autobahn. Sognavo pure io il ‹‹Gran Miracolo […] l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e la campagna e che quando arriva senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’oceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani e lo sferragliare dei docks e dei cantieri e anche il puzzo sottile delle alghe che la marea ha gettato sugli scogli››. Lo sognavo pure io quell’odore là.

Questo ho sognato l’altra notte, quell’odore là. E poi quello di Piazza San Prospero, ‹‹che di notte è bellissima››, e dei quattro leoni, e della via Emilia. L’Emilia, sempre più paranoica, sempre meno ragionata. L’Emilia degli Altri Libertini. L’Emilia di quegli anni là. ‹‹Chiedi [sempre] a settantasette se non sai come si fa›› e poi entraci dentro pure tu, al Postoristoro. L’altra notte, dentro all’isolamento, ho sognato l’odore dell’unico sogno sempre sognato. La fuga.

Il rap spiegato ai bianchi

di Luca Palladino

 

“No more fuckin Rock ‘n’ Roll!”

 

La scorsa settimana non stavo bene in Italia, precisamente vicino alla città di ***. Frattanto che stavo male, sono andato a sbattere nelle parole di Mark Costello e David Foster Wallace, ossia nel loro saggio Il rap spiegato ai bianchi, pubblicato da una casa editrice che si chiama Minimum Fax.
Il libro su cui sono incappato riposava in una piccola libreria privata, e forse non aveva per niente voglia di finire tra le mie mani; purtuttavia ci è finito, cosicché, sfogliandolo, sono venuto a conoscenza del fatto che i due autori si chiedono per quale motivo, cioè per quale assurda circostanza, condividono una sfrenata passione per quel certo tipo di musica, o meglio “anti-musica”, chiamata rap: una musica nera fatta da e per gente nera, una musica del ghetto fatta da e per gente del ghetto. Cosa c’entrano, in effetti, i due autori, i quali si autodefiniscono yuppie “consumatissimi consumatori”, con questo tipo di musica cazzuta e nera chiamata rap?
Questo libro, scritto nel 1989, prova a spiegarlo. “Il rap spiegato ai bianchi” è una virtuosa analisi sulla scena rap americana degli anni ’80.
I due autori, affetti da una rara perspicacia, notano che il rap è campionamento, è elettronica, è tecnologia, è scratchare fino al parossismo, è erezione, è parola rappata, è rima, è vera poesia, è arte, ed è soprattutto ghetto, ossia esclusione sociale, disuguaglianza economica, povertà. Si rappa per uscire dal ghetto, si rappa per fare soldi soldi soldi, si rappa per consumare consumare consumare, si rappa per Esistere: qui e ora (la musica rap “non conosce il tempo futuro” ma solo il tempo presente).

I rappers non ci pensano nemmeno a ribellarsi al sistema capitalistico che li ha rinchiusi nel ghetto, al contrario lo venerano e lo pretendono. La scena rap rifiuta certi temi come la riconciliazione, la pace, la fede, la spiritualità, la speranza, cari alla tradizione musicale americana, e non solo. La scena rap disprezza “l’ipocrisia speranzoide” dei bianchi. L’ipocrisia, per esempio, dell’etica del lavoro; l’ipocrisia di cambiare il sistema che governa il mondo; l’ipocrisia di aver bisogno dell’Altro per essere felici, come ce la menano le love songs. Nella musica rap vi è una non troppo velata rivendicazione a consumare, i rappers reclamano il diritto al consumo. Per farcela il rapper ha solo bisogno di un foglio di carta e di un campionamento e di una comunità e di se stesso: una autoreferenzialità della madonna dove l’Io non è più il più lurido di tutti i pronomi.

Il firmamento di questa musica sta sia nella parola rappata che nel campionamento: il solo fatto di pensare di prendere in prestito delle basi musicali di altri senza autorizzazione e rapparci sopra, a me sembra un atto d’incredibile vivacità: il toccasana dei toccasana, direbbe il Gaddus. Con il campionamento l’opera d’arte altrui non è solo fruibile passivamente ma pure attivamente.

Consideriamo per un attimo quanto segue: Schoolly D, nella sua canzone che si chiama Signifying rapper, nella quale narra di un regolamento di conti, ha campionato un pezzo dei Led Zeppelin e loro invece di ringraziarlo lo hanno chiamato in giudizio per tutelare la loro motherfucker proprietà intellettuale.
Eppure, se non era per Schoolly D chi se li inculava più i Led Zeppelin?

Campionare fa rima con riutilizzare e non con rubare, campionare fa rima con avanguardia e non con plagiare.

Se putacaso leggerete questo libro, vi imbatterete nella crew dei De La Soul e non avrete il tempo di cagarvi sotto, perché muoverete il culo al ritmo della loro musica e sarete accolti nella casa del signore senza nessun preavviso, poiché, se la memoria non mi falla, Cristo ha detto più o meno così: “Battitori di tempo io vi riconosco.”
Quanto a me, sono stato una favola tra queste pagine.

Ogni maledetto lunedì su due

di Robespierre Capponi

“Che ci fosse una falla nel meccanismo delle aspettative ce l’avrebbe potuto suggerire il fatto che la nota cantante pop Natalie Imbruglia era compresa in quelle di ciascuno di noi. Ma chi ci pensava”

 

La scorsa settimana, nell’ambito della Semaine de la culture italienne organizzata da degli studenti, sono andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm. Ci sono andato in qualità di consumatore, nonché di libraio.

Era di giovedì e c’era in programma un incontro sul fumetto con gli autori Manuele Fior e Zerocalcare, e ricordo chiaramente che mentre entravo alla Normale, mi sono chiesto che cosa significasse per me entrare alla Normale e intanto che me lo chiedevo, all’altezza del cortile di quella rinomata scuola, ho incontrato gente che conosco e che ho dovuto salutare e con la quale ho dovuto poi parlare, questo fatto mi ha liberato dalla questione circa cosa significasse per me entrare alla Normale; e se me lo chiedessi adesso, col senno di poi, che cosa per me allora significò entrare alla Normale, mi sentirei come quel centrocampista definito abulico dal telecronista, qualcosa come uno spaesamento.

Ad ogni modo, io ero andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm per vendere i libri di Zerocalcare e Manuele Fior, poiché ero stato invitato a farlo da una delle organizzatrici del festival che di nome fa Louison. L’incontro era organizzato a mo’ d’intervista: la gentile Louison faceva domande sia all’uno che all’altro degli invitati.

L’intervista è andata più o meno così: mentre Fior si è messo a parlarre di colore caleidoscopico e di Freud e della sua vita vissuta cercando la sua vocazione e di Mattotti e di Moebius, sue fonti d’ispirazione, Zerocalcare, invece, si è prodigado in uno sforzo terribile per accettare di essere stato chiamato alla Normale a parlare di se stesso e della sua arte, che si chiama fumetto. Pian piano, però, Zerocalcare è riuscito a districarsi dalla sua introspezione e ad accettare di avere tanta gente che lo ascoltasse (la sala era gremita), e ha iniziato a parlare di locandine per concerti Punk, di collettività, di Rebibbia, del G8, del centro sociale La Strada, dei 4 ragazzi NO TAV arrestati ingiustamente e in isolamento (!); di Gipi che è un dio e del salone del libro di Torino che è l’orrore.

Secondo me il momento più significativo di questo incontro è stato quando è arrivato il turno delle domande del pubblico e in particolare quando una ragazza ha chiesto cosa significasse per gli intervistati disegnare. Manuele Fior ha risposto facendo l’apologia del suo lavoro e ha detto che è senz’altro meglio che fare il cameriere, invece Zerocalcare ha dichiarato papale papale che si è rotto il cazzo de disegnà.

Finito l’incontro, ebbro di fumetto, mi sono messo a camminare dalla rive gauche, dove è situata la Normale, alla rive droite, dove è situato il mio alloggio in affitto, sperando d’incontrare una ragazza che mi piace. Sono entrato nel mio appartamento da solo e ho subito realizzato che l’unico libro di Zerocalcare che avevo nel mio sacco, e ce lo avevo per via del fatto che non lo avevo venduto in quanto era rovinato, si chiama “Ogni maledetto lunedì su due”; cosicché l’ho iniziato a leggere.

Ho avuto, leggendo, la netta sensazione di non essere il solo a non averci un planning, e questo mi ha fatto pensare al solipsismo e alla sua crudele realtà. Zerocalcare mi ha reso partecipe del fatto che la fascia oraria delle Bermuda è un buco nero della nostra fessaggine, e che con gli auricolari si rimorchia facile, e che la forestale è manesca, e che ci abbiamo l’e-pi-glo-tti-de; e che la cantante pop Natalie Imbruglia è realmente esistita, e che è terribile quando l’unico rimasto disponibile a cui accollarla sei tu. Zerocalcare mi ha confidato che in qualche modo ci si arrangia e che si sta a galla finché non si fracica!

Lo stile di Zerocalcare è privo di orpelli e salamalecchi, è limpido, cristallino, trasparente, e sincero. Vi è una, io credo, glasnost di schiettezza nel suo stile. La matita di Zerocalcare non è la matita di un architetto biscazziere; la matita di Zerocalcare è nuda: francamente esprime, solennemente sviscera, portentosamente disegna. Tutto questo come lo dobbiamo chiamare se non core?

Lunga vita alle braccia a ciondoloni, e a Calcare e all’Armadillo e a Roma Est e alla BAO publishing.

 

Grandi ustionati

di Luca Palladino

 

“… se le cose non finissero mai io diventerei matto”

 

Mi trovavo nella corsia destra della Salerno/Reggio Calabria, direzione Reggio di Calabria, altezza Lauria Nord, la prima volta che ascoltai un audiolibro. Fu un’amica mia, nonostante le mie proteste, a inserire il compact disc nell’autoradio.
L’audiolibro che mi fu imposto, s’intitola Grandi ustionati ed è edito da Marcos y Marcos. La voce e la penna sono di Paolo Nori.
Mentreché lo stereo diffondeva la voce dello scrittore, ho subito notato la provenienza emiliana del suo accento (vien di Parma il Paolo Nori). Con l’accento di Parma, l’autore mi ha raccontato che il protagonista di questa storia si chiama Learco Ferrari, un omaccione che di mestiere fa lo scrittore. Al Learco gli è capitato un brutto incidente automobilistico nel quale si è gravemente ustionato; ed è per questo che è ricoverato nel reparto “Grandi Ustionati” dell’ospedale maggiore di Parma.
In prima persona Learco, cioè la voce di Paolo Nori, mi ha raccontato quello che gli è successo dentro e fuori il reparto. Mi ha raccontato che è possibile fare diecimila di urina, e che “in Giappone sono alto”; che l’ospedale è un posto farsesco e carnascialesco, e che l’uccello africano della famiglia dei fischioni si chiama fischiò. Learco mi ha detto che se ti operi in testa poi ti fa male la testa, e che il catetere non è giusto; che andare a casa è pur sempre bello, che dipende dai giorni, e che avere la seggiola e non avere il culo devi stare in piedi. Prima che la mia amica togliesse il cd dallo stereo infastidita dal fatto che non le rispondevo a chissà che cosa, Learco ha avuto il tempo di raccontarmi che le visioni eloquenti sono ben belle, che i fatti di mal di culo sono precisamente fatti di mal di culo, che le recensioni sono come le previsioni del tempo, non c’azzeccano mai; mi ha poi anche detto che Aleksandr Sergeevič Puškin è un grande poeta, e che anche il cavallo a quattro zampe poi inciampa. Learco, grazie al fatto che con un guizzo impedivo all’indice impaziente della mia amica di digitare il pulsante Eject, ha anche fatto in tempo a dirmi che Miasma le cose facili non le capisce, che i congiuntivi ogni tanto scappano, e che la paratassi non è una malattia; che pian piano tra un po’ ti dimentichi, che il muratore Gaspare Chiapponi è molto meglio di Giuseppe Saragat, che lo straniamento non ho capito che cazzo sia e che chissà che lavoro… ad un tratto, poi, la voce di Paolo Nori è scomparsa e mi è toccato ascoltare la mia amica, mi è toccato… puttana vacca troia!
Ora che ci penso, cioè ora che sono qui a scrivere questa recensione, l’inchiostro di Paolo Nori mi ha aiutato a schiarire l’orizzonte brumoso della mia pianura padana, nel senso che mi ha svelato che il modo di parlare degli abitanti di questa parte d’Italia non è poi così male, fa addirittura ridere. Mi sembra che Paolo Nori abbia fotografato la nostra lingua, l’abbia… come dire?… salvata, e sono tramonti mozzafiato: fa’ tè!