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Il grande sonno

di Luca Palladino

«Baciami, Chioma d’argento».

Un repentino e terribile silenzio piomba sulla conversazione. Eppure solo un attimo prima lei e lui parlavano del più e del meno con una certa nonchalance, discutevano amabilmente del tempo, dell’età, del lavoro, del significato della parola «coprifuoco», roba così. Poi di colpo sono finiti gli argomenti come una pistola che s’inceppa all’improvviso, così è arrivata la pesante cappa di silenzio a prendersi la scena. Ora sia lui che lei cercano in giro per la mente qualcosa di sensato da dire. Ma niente, non succede niente. I due, presi da un certo disagio, girano il capo di qua e di là alla ricerca di un altrove impossibile. Adesso lei afferra una ciocca di capelli guardandoseli con molta attenzione come se cercasse chissà che. Lui, invece, afferra il bicchiere pur sapendo che è vuoto.
Nel frattempo un uomo corpulento sulla trentina entra nel locale, e prima di accomodarsi al bancone e ordinare uno scotch doppio, dà un’occhiata alla coppia con la coda dell’occhio. Ha l’aria di essere un investigatore privato: che non sia il famoso detective Philip Marlowe? Sì, dev’essere proprio lui, anzi è proprio lui. Si è acceso una sigaretta anche se nel 2020 non si può, il barman glielo fa presente ma per lui a quanto pare è ancora il 1939.
L’orologio appeso al muro segna le sette della sera. Lo so perché sono seduto proprio di fianco alla coppia in stato di disagio, vedo le grandi spalle del detective Marlowe, l’orologio è proprio sulla sua testa, cioè di fronte a me. Vedo le smorfie del suo volto spigoloso attraverso lo specchio dietro al bancone. Ho in mano un libro, Il grande sonno, di Raymond Chandler edito da Adelphi edizioni. È ben strano che nel nostro paese esista una casa editrice così… come dire?… di un’avanguardia paradossale. Addirittura pare che adesso si sia messa in testa di pubblicare tutte le opere di Chandler: penso che non me ne perderò nemmeno una.

Una nuvola di fumo si espande sul capo di Philip Marlowe mentre la ragazza accanto, strabuzzando gli occhi, prende la decisione di svignarsela salutando goffamente il suo accompagnatore che rimane da solo a fissare il bicchiere vuoto. Marlowe la guarda uscire abbozzando un sorriso, ha ordinato un altro scotch doppio, e si è acceso un’altra sigaretta. È alle prese con una nuova indagine, un ricco signore lo ha incaricato di scovare una persona scomparsa, un irlandese di Clonmel, un certo Rusty Regan. Lo so perché c’è scritto nel libro che ho tra le mani.
Il ragazzo rimasto solo al tavolo di fianco al mio respira profondamente. Marlowe, invece, si è scolato il suo scotch doppio tutto d’un fiato. Ora ha lo sguardo fisso nel vuoto, forse sta pensando al caso da risolvere, oppure riflette sul grande sonno, quello che si dorme quando si è morti, o forse sta pensando alle labbra gelide di chioma d’argento che non bacerà mai più…
D’un tratto i miei occhi e quelli di Marlowe s’incontrano attraverso lo specchio, distolgo lo sguardo in un batter d’occhi.

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Lo straniero

di Robespierre Capponi

“… devant cette nuit chargée de signes et d’étoiles, je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde.”

Ne Lo straniero, suo primo romanzo, Albert Camus racconta come la contingenza, l’hasard, la sorte abbia deviato il corso della vita di un uomo dedito ai bisogni fisici, incline ad ammazzare il tempo. Il caso buontempone di aver in tasca una pistola sotto un solleone.
Camus, attraverso la tecnica narrativa dell’io narrante, trascina il lettore dentro le consuetudini di Monsieur Meursault, il protagonista di questa storia; lo trascina dentro il suo “je”: j’ai pensé, j’ai senti, j’ai dit, j’ai fait, j’ai répondu, j’ai compris, j’ai remarqué, j’ai réfléchi, j’ai dîné.
Il leggitore è tirato dentro frasi telegrafiche quasiché ci fosse un’urgenza imminente, l’urgenza di affrontare la frase appresso, l’urgenza di vivere il presente, di appagare i propri bisogni fisici, di pisciare, di mangiare, di fottere, come se le necessità corporali fossero l’unica cosa che ci conta a questo mondo.
Leggendo si avverte come un’apprensione che pare di essere in un film di John Ford, dove gli indiani cattivi (sic!) sono pronti a comparire all’orizzonte da un momento all’altro. Anzi, l’occhio nudo può già vedere la polvere che alzano i cavalli al galoppo nella prateria e il cervello può già immaginare lo scalpo che l’indiano si prenderà.

Per via di tutta questa urgenza, il signor Meursault è tacciato dalla società in cui vive come un essere immorale e insensibile. Immorale e insensibile perché ha rinchiuso la madre in una casa di riposo, perché non piange al suo funerale; perché non ama la sua donna, perché non crede in dio, perché non gioca a fare l’adulto. D’altra parte, per sua stessa ammissione, la sua natura non gli consente di aver sentimenti, ché ci sono i bisogni fisici prima di tutto. Monsieur Meursault deve pisciare. Per la società questo è un’aggravante; è una colpa imperdonabile, perciò condannabile all’esecuzione capitale: la testa tagliata in una piazza pubblica in nome del popolo francese.

In questa lotta contro il tempo, è vero che maman est morte, ma tanto poi la morte non è che il fine della vita, ossia prepararsi a tutto rivivere.

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Amianto, una storia operaia

di Robespierre Capponi

«Quando da piccolo la maestra mi chiedeva quale era il lavoro di mio padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa volesse dire».

Maremma cane, me li ricordo quei momenti interminabili in cui la maestra ci domandava che mestiere facessero i genitori o, ancor peggio, da dove provenissero. Quel tipo di domande avevano il dono di spingermi nel precipizio di una certa difficoltà, a tal punto che speravo non arrivasse mai il mio turno. Non capivo poi perché arrivava, il mio turno, e soprattutto perché fosse così importante conoscere l’estrazione sociale, o territoriale, dei miei genitori.

Per il compagno Alberto Prunetti, autore di Amianto, una storia operaia, non è andata così. Lo scrittore toscano non veniva costretto a provare disagio quando la maestra gli chiedeva quale fosse il mestiere del su’ babbo; e non era costretto a provare disagio perché nella scuola che frequentava i poveracci non erano i figli delle fabbriche, ma gli altri, i figli dei ricchi, le mezze seghe che non sapevano neanche tirare un calcio al pallone.

Con Amianto, primo libro della fondamentale trilogia working class, Prunetti racconta la storia del su’ babbo Renato, saldatore tubista, eroe operaio, costretto dai padroni a saldare tubi sotto un telone ricoperto di amianto. Costretto «a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti», costretto ad ammalarsi per campare. Per un tocco di pane.
Alberto Prunetti racconta la vicenda di Renato con grande coraggio, e lo fa mettendoci il canapone, cioè il cuore, che «regge più del teflon». Lo fa rispettando la filettatura degli eventi, legando poi il tutto «con un dito sporco di mastice verde». Lo fa con le lacrime agli occhi, lacrime che, però, non perdono, perché Alberto ha stretto con forza le parole, «ma senza cattiveria».
C’è un punto preciso nel libro in cui questa stretta decisa la si vede benissimo. Ad un certo punto, infatti, la scrittura di Alberto Prunetti sembra non perdere più, sembra scorrere via fluida, senza singhiozzi e lacrime che annebbiano la vista e che fanno tremare la mano. Gli occhi si asciugano, la mano diventa sicura e la storia prende a scorrere via come un fiume in piena (è il lettore semmai che perde le lacrime). È come se tra le pagine il lutto venisse a poco a poco lubrificato nei suoi ingranaggi, elaborato.

La storia di Renato mi ha ricordato il muratore fiorentino Metello, leggendo Amianto ho incontrato le stesse facce amiche, le stesse coscienze pulite, le stesse mani faticate, e lo stesso identico nemico del romanzo di Pratolini: lo sfruttamento. I lavoratori continuano a essere «stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare». Pretende il diritto di ammazzare.

La storia di Renato, come la storia di Metello, appartiene a tutte le epoche, è una storia vecchia come il mondo, la storia dell’oppressione, dello sfruttamento, della barbarie; la storia infinita dei padroni (mai satolli come i polli e i preti) che sfruttano tutto lo sfruttabile, che si prendono tutto: i corpi, le menti, le vite. Mica altro. Il capitale non si limita a uccidere, consuma lentamente.
Le ferite inferte ai lavoratori, e ai loro cari, si fanno segni indelebili sulla pelle di chi parte e di chi resta, cicatrici d’ingiustizia, di nocività, di ricatti imperituri.

Ma, boiadé, non ci abbiamo fatto il callo.

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Fahrenheit 451

di Robespierre Capponi

«La maggior parte di noi non può correre dappertutto, parlare con chiunque, conoscere tutte le città del mondo, perché non ha il tempo, i soldi e neppure tanti amici. Le cose che cerca, Montag, sono nel mondo, ma il solo modo che l’uomo medio può conoscerle è leggendo un libro».

Se critichi devi avere una proposta se no tanto vale che non critichi affatto, mi han detto pochi giorni fa. Anche perché per proporre bisogna essere dei gran propositori, invece per criticare basta essere dei criticoni, han proseguito.

Mentre imbronciato me ne stavo seduto alla scrivania pensando alla veridicità o meno di questo assunto, ho afferrato, in un raro momento di lucidità, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, edito da Mondadori nella collana tascabile ed economica degli Oscar, e ho iniziato a sfogliarlo prima e leggerlo attentamente poi.

Fahrenheit 451, un classico della fantascienza, è una storia stramba ambientata in una società futura ultra tecnologica dove i pompieri non hanno più il compito di spegnere gli incendi, ma di appiccarli. In quest’epoca nuova il fuoco non è più usato per scaldarsi, ma per bruciare libri a 451 gradi della scala Fahrenheit. «È un buon lavoro. Lunedì bruci Lugones, mercoledì Maupassant, venerdì Verne, bruciali tutti e poi brucia le ceneri».

È questo il nostro slogan ufficiale! Nella nostra società, dove nessuno ha più tempo per gli altri, i libri sono una minaccia, poiché potrebbero rendere infelici le persone, potrebbero fargli credere a chissà cosa, oppure a una società diversa, magari immaginifica, perché no alternativa, dove è concessa persino la possibilità di criticare senza per questo essere obbligati a far proposte.

Nella nostra società, «l’aggettivo “intellettuale” si è trasformato nella parolaccia che meritava di essere».

I libri, da noi, li si può solo imparare a memoria o nascondere in soffitta, sono il nemico da dissolvere, da far sparire, da bruciare, come Giordano Bruno a Campo de’ Fiori; non deve rimanere neanche un atomo del pensiero che vanno diffondendo. Vogliamo solo essere felici in questa nostra società! Qui la felicità è di tutti, senza nessuna discriminazione, non è come piazza affari che se qualcuno è felice c’è da qualche parte un povero infelice. Qui da noi non esistono i segni + e – a tenere insieme tutto. C’è solo il +.

È per questo che bisogna essere tanto grati al pompiere Montag, il mio vicino di casa, il protagonista di tutta questa storia; bisogna essergli tanto grati perché brucia libri con dovizia, e con loro tutte le menzogne di cui sono farciti. D’altra parte, «quando avevamo tutti i libri di cui c’era bisogno, continuavamo a cercare la scogliera più alta da cui buttarci». O no? La vita normale, tranquilla e monotona del mio vicino di casa Montag, è esemplare, un esempio per tutti noi. Legato com’è al suo lavoro, fedele a sua moglie e soprattutto alla vita che conduce, una vita piena di sana routine, in cui è molto meglio ingollare patatine fritte davanti a un gigantesco schermo piatto a quattro pareti piuttosto che domandarsi il perché delle cose. In una parola, il mio vicino Montag conduce una vita strafelice. La vita che noi tutti meritiamo. Non sia mai si faccia venire delle paturnie, dei ripensamenti o, dio non voglia, dei sensi di colpa: i libracci «erano solo uno dei ricettacoli in cui mettevamo le cose che avevamo paura di dimenticare», questo Montag lo sa, lo deve sapere.

Sono uscito da questo libro come si esce da una discoteca, tirando un forte sospiro di sollievo: fortunatamente solo nei libri di fantascienza esistono delle società così meschine.

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Perfidia

di Robespierre Capponi

«Ha scoperto la vera Quinta Colonna. E non è quello che pensa la gente».

Chi è l’uomo bianco con il pullover viola? È quello che ci si chiede nelle 882 pagine di Perfidia di James Ellroy, il primo libro del nuovo quartet dedicato a Los Angeles, pubblicato da Einaudi editore.

Il dottore della scientifica Hideo Ashida, il sergente Dudley Liam Smith, il capitano “whiskey” Bill Parker, ed io ci stiamo rompendo la testa a forza di chiedercelo: chi è l’uomo bianco con il pullover viola?

Il suono di una moltitudine di relazioni cellulose aleggia ancora nell’etere, lo si può avvertire anche tra queste pagine digitali, è sufficiente appiccicare l’orecchio allo schermo come sto facendo io in questo momento: sì, sento l’eco del crepitio di sinapsi, sono ancora lì a bisbigliare del come e del quando e del perché.

Il contesto dove ci troviamo è presto detto: Los Angeles. È il 1941, tempo di guerra: al di là dell’Oceano Atlantico, l’Europa è quasi tutta in mano ai nazifascisti, a resistere sono rimasti solo gli inglesi e i comunisti di ogni latitudine. I giapponesi, invece, hanno avuto la stravagante idea di attaccarci a Pearl Harbor, affondando la flotta del Pacifico. Praticamente un suicidio: gli faremo il culo!

A proposito di suicidio, proprio il giorno prima dell’attacco, cioè il 6 dicembre 1941, una intera famiglia di giapponesi è stata trovata morta nel proprio appartamento, pare per via di un suicidio rituale, un seppuku e qualcosa, una di quelle pratiche strane dei giappi. I corpi senza vita sono stati ritrovati sventrati uno accanto all’altro sul pavimento del soggiono. Di fianco ai corpi senza più budella, quattro spade sporche di sangue: è davvero un suicidio collettivo o un crimine? Grazie ad alcune analisi della scientifica che non sto qui a spiegare, propendiamo per la seconda ipotesi. Il capo della polizia Jack Horral vuole dare molto spazio a questo caso poiché i giapponesi, dopo l’attacco infame a Pearl Harbor, sono nell’occhio del ciclone. In più Jack vuole che si trovi un assassino giappo, vuole che lo si dipinga come un mostro, per poi darlo in pasto all’opinione pubblica collaborazionista, e lo vuole entro capodanno.

Non passerà molto tempo che interneremo i cittadini americani di origine giapponese per tutto il periodo del conflitto mondiale; ed entreremo in guerra a fianco degli alleati contro il famigerato Asse. A dir la verità, avremmo preferito allearci a Hitler e al suo compare Mussolini piuttosto che ai comunisti, poiché il nostro grande nemico sono i rossi, non certo i nazifascisti, anche se hanno un po’ esagerato con quei giudei…

Zompo un attimo fuori dal libro, cioè dal 1941, per far ritorno all’attualità, cioè il presente di fine pandemia e di lotte globali contro il razzismo e soprattutto contro la violenza della polizia. Pochi giorni fa mi è venuta voglia di scrivere “ACAB” sul muro e l’ho fatto (volevo scrivere il più criptico “1312”, ma poi ho optato per la chiarezza). Ora che ci penso mi fa un po’ specie aver avuto come compagni di avventura dei poliziotti (peraltro senza scrupoli), ma la letteratura spesso conduce dove non te lo saresti mai aspettato, ad apprezzare scrittori conservatori o a identificarti persino con un sergente razzista della polizia di Los Angeles, chiamato Dudley Liam Smith per il quale io sono solo un wop, un guappo. Il Dudster non contiene neppure un atomo di sensibilità, eppure mi ha fatto venire voglia di diventare un suo protetto, di sapere che effetto fa ammazzare un giappo a bruciapelo, di riempirmi di benzedrine e altre cose che non si possono dire, tipo andare a letto con Bette Davis. Mi è venuta voglia anche di provare l’oppio nella pagoda di Zio Ace, per evadere dalle inutili tribolazioni quotidiane, dal malvagio passato presente futuro, e da me stesso. Mi è venuta anche voglia di fare soldi in modo illecito, solo che non so come si fa. Fottesega di quello che vanno dicendo i Proverbi 3, 31: «Non invidiare l’uomo violento e non imitare affatto la sua condotta».

No, non so chi sia l’uomo bianco con il pullover viola, e neppure m’interessa, cioè sti cazzi, io sto con Bette Davis. Ho appena dato un bigliettone da 100 dollari al cameriere in livrea. C’è anche John Wayne nella sala, ha baciato il braccio di Bette e io ho preso in mano la pistola per ficcargli una pallottola nelle cervella, non so neanche perché non l’ho fatto. Poi Bette mi ha spezzato il cuore buttandomi addosso queste parole qui: «Come osi pensare che io e te siamo più di una triviale nota a piè di pagina di questo orribile periodo»… Ho fatto un casino.

Ci sarebbero un sacco di altre cose da dire su questo libro molto denso, per esempio cosa avrebbe da dire su tutta questa storia Kay Lake, la ragazza cazzuta della prateria di Sioux Falls, nel South Dakota, scappata a Los Angeles da un «destino insufficiente», ma questo lo lascio scoprire al magnifico lettore.

Vorrei concludere dicendo che secondo me leggere l’Ellroy di Perfidia è molto più appassionante di qualsiasi serie del cazzo su Netflix (vabbè, a parte Better call Saul).
Vorrei anche ringraziare James Ellroy, grande scrittore, per avermi fatto compagnia in questa strana pandemia, ma soprattutto vorrei ringraziare chi mi ha prestato questo libro, cioè una mia amica di Parigi, che però adesso si è trasferita a Lione. Ora che ci penso, ho rischiato una multa salata per prendere possesso di Perfidia, ho varcato le cosiddette colonne d’Ercole della pandemia, cioè un chilometro senza autocertificazione, per averlo; ho infranto la legge e ne è valsa davvero la pena.

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La rivoluzione della luna

di Robespierre Capponi

‹‹Finalmenti ‘ncontrava a ‘na fìmmina che, oltri che ad aviri ‘n sommo grado tutti l’attributi fimminini, possidiva macari un gran paro di cabasisi››

Circondato da quattro mura, ho tra le mani un libro di Camilleri che s’intitola La rivoluzione della luna. Dentro questo libro, uscito nell’anno del signore 2013 per Sellerio editore Palermo, è custodita una storia che sembra inventata di sana pianta ma che invece è realmente accaduta. Camilleri conta che nel milli e seicento e sittantasetti la Sicilia fu governata per 28 giorni da una donna! Nel 1677 Eleonora di Mora fu chiamata a governare la Sicilia dalla morte improvvisa del Viciré, suo marito. Ventotto giorni (!), lo stesso tempo che ci impiega la luna a fare il giro dello zodiaco, le bastarono a portare la giustizia in una terra di ’ngiustizia, di approfitto, di pripotenza e di arbitrio. Ci volle una donna per calmierare il prezzo del pane!

D’emblée penso al concetto di casa, e cioè se sia diventata una prigione in questi tempi di pandemia qui o se lo è sempre stata. Mentre il mio ragionamento è diretto chissà dove, Camilleri mi assesta un certo scapaccione come a voler riprendersi l’attenzione. Mi ritrovo l’agenda piena di rendez-vous con il malaffare, l’innamoramento del potere, la difficile condizione delle donne; e il “nefando crimine”. Non ho neanche il tempo di dire “che fortuna!”, che mi trovo ad averci appuntamento anche con la giustizia sociale e il casto amore. O sì! Tale e quale a quello che prova il protomedico Serafino nei confronti di donna Eleonora, descritta come solo Andrea Camilleri è in grado di fare, ossia con la sua lingua terragna, fatta di parole che prendono forma fino a diventare nitide, adamantine, dove non c’è neanche bisogno del vocabolario figurato per figurarsele.
Per lo scrittore di Porto Empedocle donna Eleonora è di una “biddrizza da fari spavento”… Può sembrar strano ma mi sento addosso i suoi occhi (“e che occhi”). La descrizione di Camilleri è così potente che ho la netta sensazione che donna Eleonora mi appaia, perciò mi ritrovo, pieno di rossore e sgomento, ad allungare la mano come se fossi un cristiano assillato dalla prova.

La pregnanza della lingua di Camilleri, che per intanto ha preso tutta la mia attenzione, si manifesta in modo chiaro quando lo scrittore mi narra di un certo Vescovo che abusa dei minori. Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori non è semplicemente un Vescovo che abusa dei minori, nossignore! Per Camilleri un Vescovo che abusa dei minori è un Vescovo che lo mette ‘n culo ai picciliddri! Qui è come se le parole di Camilleri smascherassero il Vescovo in tutta la sua nefandezza. Lo scrittore siciliano si prende la responsabilità di farmi vedere l’orrore, si catafotte nel profondo della mia ripugnanza. Alza il sipario della schifezza, dove essa fete così tanto da togliere l’onore. Con le sue parole ineguagliabili Camilleri si carica di coraggio e ci dà un pugno al Vescovo, come se fosse un Papa a cui hanno offeso la madre; le sue parole leniscono il mio stomaco malandato e vendicano tutti i soprusi del mondo.

Andrea Camilleri ha questo potere di rendere vive le parole, è per questo che non può morire mai. Con lui il significato non è mai stato così significante, con lui le parole sono limpide come il Canal Grande ai tempi del covid 19. Camilleri è letteratura, e fa lo stesso effetto che i semi di finocchio fanno a una tipa che ho conosciuto: stra-bene! Adesso io vorrei che mi raccontasse un’altra storia. Un’altra storia ancora. Un’altra storia che mi faccia evadere da questa prigione chiamata casa. Leggere Camilleri è panacea di tutti i mali.

 

 

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Ogni maledetto lunedì su due

di Robespierre Capponi

“Che ci fosse una falla nel meccanismo delle aspettative ce l’avrebbe potuto suggerire il fatto che la nota cantante pop Natalie Imbruglia era compresa in quelle di ciascuno di noi. Ma chi ci pensava”

 

La scorsa settimana, nell’ambito della Semaine de la culture italienne organizzata da degli studenti, sono andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm. Ci sono andato in qualità di consumatore, nonché di libraio.

Era di giovedì e c’era in programma un incontro sul fumetto con gli autori Manuele Fior e Zerocalcare, e ricordo chiaramente che mentre entravo alla Normale, mi sono chiesto che cosa significasse per me entrare alla Normale e intanto che me lo chiedevo, all’altezza del cortile di quella rinomata scuola, ho incontrato gente che conosco e che ho dovuto salutare e con la quale ho dovuto poi parlare, questo fatto mi ha liberato dalla questione circa cosa significasse per me entrare alla Normale; e se me lo chiedessi adesso, col senno di poi, che cosa per me allora significò entrare alla Normale, mi sentirei come quel centrocampista definito abulico dal telecronista, qualcosa come uno spaesamento.

Ad ogni modo, io ero andato all’Ecole Normale Supérieure di rue d’Ulm per vendere i libri di Zerocalcare e Manuele Fior, poiché ero stato invitato a farlo da una delle organizzatrici del festival che di nome fa Louison. L’incontro era organizzato a mo’ d’intervista: la gentile Louison faceva domande sia all’uno che all’altro degli invitati.

L’intervista è andata più o meno così: mentre Fior si è messo a parlarre di colore caleidoscopico e di Freud e della sua vita vissuta cercando la sua vocazione e di Mattotti e di Moebius, sue fonti d’ispirazione, Zerocalcare, invece, si è prodigado in uno sforzo terribile per accettare di essere stato chiamato alla Normale a parlare di se stesso e della sua arte, che si chiama fumetto. Pian piano, però, Zerocalcare è riuscito a districarsi dalla sua introspezione e ad accettare di avere tanta gente che lo ascoltasse (la sala era gremita), e ha iniziato a parlare di locandine per concerti Punk, di collettività, di Rebibbia, del G8, del centro sociale La Strada, dei 4 ragazzi NO TAV arrestati ingiustamente e in isolamento (!); di Gipi che è un dio e del salone del libro di Torino che è l’orrore.

Secondo me il momento più significativo di questo incontro è stato quando è arrivato il turno delle domande del pubblico e in particolare quando una ragazza ha chiesto cosa significasse per gli intervistati disegnare. Manuele Fior ha risposto facendo l’apologia del suo lavoro e ha detto che è senz’altro meglio che fare il cameriere, invece Zerocalcare ha dichiarato papale papale che si è rotto il cazzo de disegnà.

Finito l’incontro, ebbro di fumetto, mi sono messo a camminare dalla rive gauche, dove è situata la Normale, alla rive droite, dove è situato il mio alloggio in affitto, sperando d’incontrare una ragazza che mi piace. Sono entrato nel mio appartamento da solo e ho subito realizzato che l’unico libro di Zerocalcare che avevo nel mio sacco, e ce lo avevo per via del fatto che non lo avevo venduto in quanto era rovinato, si chiama “Ogni maledetto lunedì su due”; cosicché l’ho iniziato a leggere.

Ho avuto, leggendo, la netta sensazione di non essere il solo a non averci un planning, e questo mi ha fatto pensare al solipsismo e alla sua crudele realtà. Zerocalcare mi ha reso partecipe del fatto che la fascia oraria delle Bermuda è un buco nero della nostra fessaggine, e che con gli auricolari si rimorchia facile, e che la forestale è manesca, e che ci abbiamo l’e-pi-glo-tti-de; e che la cantante pop Natalie Imbruglia è realmente esistita, e che è terribile quando l’unico rimasto disponibile a cui accollarla sei tu. Zerocalcare mi ha confidato che in qualche modo ci si arrangia e che si sta a galla finché non si fracica!

Lo stile di Zerocalcare è privo di orpelli e salamalecchi, è limpido, cristallino, trasparente, e sincero. Vi è una, io credo, glasnost di schiettezza nel suo stile. La matita di Zerocalcare non è la matita di un architetto biscazziere; la matita di Zerocalcare è nuda: francamente esprime, solennemente sviscera, portentosamente disegna. Tutto questo come lo dobbiamo chiamare se non core?

Lunga vita alle braccia a ciondoloni, e a Calcare e all’Armadillo e a Roma Est e alla BAO publishing.

 

Arrivederci amore ciao

 

«[Massimo Carlotto] è uno scrittore di noir al quadrato, di quelli che ti mettono alla prova. In America uno come lui non c’è. Neanch’io potrei leggere Carlotto tutto il tempo. Non ce la farei».

 

La citazione in esergo è attribuita a Josh Bazell. A parte l’attendibilità o meno della fonte, leggendo queste righe mi è venuto in mente subito Giorgio Pellegrini, il protagonista probo all’oblio di Arrivederci amore, ciao. Il sorprendente libro di Massimo Carlotto pubblicato da edizioni e/o.

Vi è una totale mancanza di sensibilità in Giorgio, una spietatezza ragionata e implacabile che a memoria mia penso di non aver mai incontrato tra le pagine di un libro. Giorgio Pellegrini ti mette alla prova così come l’inchiostro di Massimo Carlotto: aspro, essenziale, fluido, spietato, implacabile, noir. Massimo Carlotto è uno scrittore nerissimo, sì; totalmente privo di sentimentalismo. È uno scrittore che impasta un realismo integrale, iper, pieno di masnadieri di ogni risma: una epifania dell’erba cattiva. Massimo il nero non ha tempo di ammiccare al lettore con le frasette del tipo “nulla è per noi la morte”, non ha cioccolatini da distribuire. Carlotto è troppo impegnato a raccontare la brutta sporca e cattiva realtà sociale che impazza dappertutto, per avere sentimenti da diffondere. Non vi è filantropia né captatio benevolentiae né tanto meno vi sono filosofemi nella penna di Carlotto.

In effetti, una delle poche frasi che ho sottolineato leggendolo, io in cerca di cioccolatini, è questa qui: «Lui, invece, in chiesa ci era sempre andato poco e da qualche anno si era allontanato del tutto. Nella sua vita aveva trovato più conforto e comprensione tra le braccia di una brava puttana che in ginocchio davanti al confessionale».

Penso che per avere il tipo di scrittura che possiede Massimo Carlotto, oltre alla vocazione ci sia  bisogno di un cuore grande così.

Que viva Massimo Carlotto!

Il sentiero degli dei

 

di Robespierre Capponi

In quell’inizio di primavera un po’ stramba, il nostro obiettivo era quello di arrivare a Firenze, cioè di fare più o meno centotrenta chilometri in quattro giorni, avventurandoci lungo la via politeista che unisce Bologna a Firenze, ovvero il sentiero degli dei. Con lo zaino in spalla, e la necessità di liberarci dai patemi di una quotidianità pandemica fatta di zone a colori e insulsi divieti, ci incamminammo di buon’ora verso la Basilica di San Luca, dove per arrivarci si percorre il portico più lungo al mondo, tutto, o quasi, in salita.

Dopo aver lasciato il parco della Chiusa, ci capitò la fortuna di non incontrare anima viva fino a Monzuno, dove si concludeva la nostra prima tappa. Sarà stato per via di quella buona sorte, di quel silenzio eloquente accompagnatore del nostro cammino, che ci prese come una vaga sensazione d’incontrarli per davvero gli dèi, e forse sarebbe potuto anche accadere se solo non avessimo avuto con noi dei sensi così grossolani. Infatti, quando ci capitava di passare in mezzo a un’abetaia, mentre che eravamo concentrati nel buttare avanti uno dopo l’altro i nostri passi, avevamo come la sensazione che sopra la nostra testa stesse succedendo qualcosa di molto importante, avvertivamo un certo misterioso convegno tra il fruscio delle foglie, il cinguettio degli uccelli e il soffio del vento. Ma cos’è che aveva da dirsi di così importante la combriccola dell’abetaia? No, i nostri organi di senso non sono uno strumento sufficientemente sensibile per rispondere a questa domanda. Allora è forse per questa impossibilità di capire i linguaggi della natura che abbiamo deciso di prosciugare ruscelli e fiumi, e di sventrare montagne e abbattere alberi?
Il fatto è che questa perplessità avrebbe meritato senz’altro una sosta di qualche minuto per rifletterci un po’ su, se solo l’ingegner «A» ci avesse lasciato il tempo di farlo. L’ingegnere, la guida del nostro gruppo, possedeva una certa frenesia tipica di certi sportivi, quella di portare a termine la missione in un preciso arco di tempo. Il tempo dell’orologio.

Avanzavamo in fila indiana, l’ingegner «A» guidava il gruppo con il suo passo deciso e costante. Noialtri, cioè io e «B», lo seguivamo con molta determinazione. «B» si era portato appresso i batacchi da passeggio, quelli che vendono nei negozi di articoli sportivi specializzati nel trekking, e per fortuna ne aveva dato un paio anche a me che chiudevo la fila e mi chiamo «C».
«A» ci trascinava lungo i sentieri, c’incoraggiava, a volte ci ammoniva a non perder tempo con certe filosofiche stupidaggini spronandoci al pragma, alla concretezza, al compartimento stagno: eravamo lì per un obiettivo, e per nessuna ragione al mondo ci saremmo fatti distrarre dal subdolo e galattico interpensiero. Bisognava arrivare alla meta senza star lì troppo a fantasticare su ciò che non può essere né attuato né decodificato. Come per esempio la molecola vagabonda che vagava nell’aria e, per caso e controvoglia, visitava sovente il mio naso per comunicarmi chissaché.
La salitaccia di monte Adone metteva a dura prova i nostri muscoli, l’ingegnere però sembrava non soffrire le pendenze, gli strappi della salita, il fiato grosso. Io e «B», invece, arrancavamo, e nel frattempo imparavamo sul campo che cosa concretamente significasse rompere il fiato. Arrivati finalmente in cima bevemmo un meritato sorso d’acqua mentre l’aria pizzicava senza pietà le nostre schiene piene di sudore e nel contempo le cellule, prigioniere dell’acido lattico, ci comunicavano impazienti la loro pazza voglia di ossigeno.
Incapaci di recepire sia il linguaggio delle cellule che quello della natura, buttammo arditi gli occhi attorno a noi, la vista della vallata mozzava il fiato. Respirammo a pieni polmoni. Poi ci voltammo in direzione delle nostre spalle, cioè dietro di noi, e proprio in quel momento ci accorgemmo, pressoché allibiti, di aver percorso «TUT-TA QUEL-LA STRA-DA!».
Questo fatto produsse nei nostri corpi un sentimento mai provato prima. La vista di tutto quel segmento di strada percorso, installava nei nostri cuori una chiara sensazione di soddisfazione, di appagamento, di piacevolezza, ma allo stesso tempo di stranezza, poiché non era affatto consueto guardarsi indietro e provare piacere. Quella gagliarda sensazione era moltissimo differente da quel tipico umor freddo e nero di quando si guarda al proprio passato, a certi istanti andati via per sempre, quella sensazione non aveva nulla a che fare con quei tipici rimpianti per aver scelto quel sentiero piuttosto che quell’altro; in mezzo a quelle catene di montagne, la strada percorsa era fonte di inaspettato piacere, di ambizioni, di cari passati, presenti e futuri.
Speranzosi, ci rimettemmo in cammino non prima di aver bestemmiato contro la società dei preti, e la loro inaccettabile smania nel voler a tutti i costi piazzare il proprio simbolo dappertutto, persino sulla cima del monte Adone, dando per scontato che il crocifisso appartenga a tutti. È di tutti, semmai, il diritto al panorama, alla bellezza, alla felicità; e, perché no, ad averci un passato senza rimpianti.

L’albergatore di Monzuno ci accolse con una doccia, un letto e delle squisite tagliatelle al ragù. Quando indolenziti, ma pieni d’immagini e pensieri inconsueti, ci ritirammo nelle nostre stanze, incominciai a leggere «Il sentiero degli dei» di Wu Ming 2, fino a quando non mi prese il sonno, un sonno bello: senza confini, pieno di sogni.

To be continued (forse)…

Helgoland

 

di Giovanni Di Prizito

‹‹Come si può crederci? È come se non esistesse…la realtà…››

Erano più o meno le sette del mattino quando ho ficcato il naso tra le pagine di Helgoland, ultima fatica letteraria di Carlo Rovelli, edito per i tipi di Adelphi. Mi trovavo, come di consueto, a bordo del regionale veloce diretto a Modena. Fuori un sottile strato di nebbia e la Pianura a perdita d’occhio, dentro qualche sbadiglio e un paio di cellulari già connessi. In sottofondo il rumore metallico e stridente del treno che cambia binario.

Estate 1925. Helgoland. Werner Heisenberg è arrampicato su una roccia a picco sul Mare del Nord, aspetta il sorgere del sole e intanto guarda la vastità delle onde, consapevole di aver visto per primo qualcosa che rivoluzionerà la visione della Natura. Del mondo.

Inizio Novecento. L’idea dominante è che alla radice di tutte le variopinte forme della realtà ci siano particelle di materia guidate da determinate forze. Niels Bohr, sulle proprietà degli elementi chimici, non ha dubbi, certo che in ogni atomo gli elettroni orbitino ‹‹su certe precise orbite, a certe precise distanze dal nucleo, con certe precise energie››.

Il giovane Werner, ventitré anni e tanta curiosità, qualche dubbio lo ha, meno certo di una realtà fatta di particelle che si muovono lungo traiettorie definite. La sua idea non prevede definizione, la sua idea prevede oggetti lontani connessi tra loro. Connessi come? ‹‹Non più materia, ma onde di probabilità›› mi disse fin da subito, alla prima fermata, Anzola dell’Emilia. ‹‹In che senso?›› replicai con slancio verdoniano guardando la Pianura.

‹‹Vecchio Professore, cambi il modo di pensare l’elettrone›› asserì invitandomi a seguirlo, ‹‹rinunci all’idea che sia un oggetto che si muove lungo una traiettoria, provi a descrivere solo ciò che osserva dall’esterno›› continuò consigliandomi di basarmi solo su quello che vedo, e non su quello che penso debba esistere. Io però continuavo a non capire. ‹‹Rifletta›› esclamò, ‹‹le particelle come gli elettroni possono essere in realtà delle onde, come le onde del mare›› aggiunse, ‹‹ecco, pensi all’elettrone come un’onda che corre. Mi sta seguendo?››

Francamente, l’idea di sostituire un mondo di materia con un mondo di onde mi spaventava, e poi non capivo come fosse materialmente possibile. Questo significava fluttuare? In un certo senso galleggiare? Ondeggiare da una parte all’altra? Oppure essere tutti mescolati? O ancora non essere mai fermi? Cosa voleva comunicarmi? Di cosa esattamente mi stava parlando il giovane Werner?  Fermata dopo fermata le domande, e quindi i dubbi, aumentavano, facendomi sentire da un lato abbarbicato sulla roccia vicino a lui, dall’altro consapevole dell’immensa vastità della mia ignoranza. ‹‹Lei non veda il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, lo veda come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi e dove, se l’elettrone non sta interagendo, non ha proprietà›› proseguì.

La luce del primo mattino rischiarava la Pianura, lo strato di nebbia era scomparso e il rumore del treno era sovrastato da quello dei cellulari. I pendolari erano pronti a lavorare, come tutti i santi giorni, gli studenti a tornare a scuola. Finalmente. Io ero confuso, pensavo e ripensavo alle osservazioni, alle probabilità, alle relazioni tra le particelle, alle orbite degli elettroni, alle certezze mai certe, alle onde del mare e al fatto che ogni cosa, coerentemente con il pensiero quantistico, a pensarci bene non è che ciò che si rispecchia in altre. Mi sentivo come in uno stato di mescolamento con il cosmo, galleggiavo da un punto all’altro del vagone e non capivo più dove mi trovavo, se a Helgoland sul faraglione o a Modena al binario uno. Werner e io guardavamo le onde, il sole era ormai sorto e il cielo era un abisso denso e bianco che all’orizzonte si scioglieva nel Mare del Nord. E una cosa, almeno una, mi fu chiara. A non farsi domande non si impara niente.

Heartland – Al cuore della povertà nel Paese più ricco del mondo

di Alessandra Banfi

‹‹ Molti degli adulti che mi hanno cresciuta si ritenevano marcie lo so perché spesso trattavano anche me come tale. La più grande fortuna della mia vita è stata sapere che si sbagliavano.››

Campi infiniti, magliette bagnate di sudore, terra rossa infilata sotto le unghie. Una roulotte parcheggiata a bordo strada tra la polvere e il nulla. Il cielo che scurisce all’improvviso, il vento che graffia la faccia, i tornado che travolgono la terra e la vita delle persone.
È qui che Arnie compra una fattoria negli anni Cinquanta, a trenta miglia a ovest di Wichita, nel Kansas meridionale.
È qui che Betty e sua figlia Jeannie si trasferiscono anni dopo, quando il primo matrimonio di Arnie è già finito. Quando Betty, abituata a una vita di spostamenti e traslochi, decide di fermarsi e sposare quell’uomo più grande di lei che trascorre le giornate e le stagioni seminando, curando i terreni e raccogliendo il grano.
Alla fattoria si lavora duro, ma Betty e Jeannie sono abituate ai sacrifici. Tutti lo sono, nel paniere del mondo.
Ed è qui che nasce Sarah, la nipote di Betty, nel 1980.

Il signor Cheatham alza lo sguardo dal libro e cerca la propria immagine nella specchiera che ricopre la parete di fronte. La trova. Strizza le palpebre per osservarla meglio.
Un vecchio in camicia di cotone e pantaloni chiari. Il bastone da passeggio accanto alla sedia. La testa lucida e calva, i baffi ormai completamente bianchi. Possibile sia già passato tanto tempo?
Il profumo di vernice fresca impregna l’aria della stanza, si mescola a quello dei libri, gli irrita un po’ la gola. Per questo ha già dato diversi colpi di tosse e per questo il libraio gli ha portato un bicchiere d’acqua. Lì ormai è di casa. Lo è da trent’anni. Lo è da quando la libreria ha alzato la serranda per la prima volta. All’epoca era un maestro con le guance sempre arrossate e i baffi grigi che lo facevano assomigliare a un tricheco. Un maestro che si dava da fare, può dirlo con orgoglio, e che aveva arredato il seminterrato della scuola elementare con banchi e seggiole, qualche opera d’arte, un soppalco per la lettura, un piccolo palcoscenico, un pianoforte. Era in quelle stanze dal pavimento di cemento che nei pomeriggi degli anni Ottanta dava lezioni di matematica a un gruppo di studentesse e di studenti “speciali”. Insegnava le costellazioni, proponeva copioni da recitare, invitava i bambini a redigere una rivista. Si trattava di un “corso per i più dotati”. Un corso a cui anche la piccola Sarah aveva partecipato.
Il signor Cheatham tossisce di nuovo. Ricorda bene Sarah Smarsh.
Una bambina esile. I capelli biondi, i movimenti agili, la pelle abbronzata dal lavoro nei campi. Le mani di una lavoratrice e la testa brillante, curiosa.

Sarah Smarsh, ripete tra sé il signor Cheatham.
Era stato proprio lui a inviare un racconto di Sarah a una rivista per bambini. Perché lui l’aveva capito subito che quella ragazzina aveva del talento. E il racconto era stato pubblicato. Il primo successo di Sarah: il primo tentativo di smarcarsi dallo stereotipo che la marchiava. La bambina povera e senza risorse appartenente a una famiglia dell’America rurale. Una famiglia disfunzionale e piena di combina-guai.
Il signor Cheatham infila il segnalibro tra le ultime pagine di Heartland. Vuole gustarsi la storia senza correre. Preferisce centellinare la lettura, rimandare il finale al giorno dopo. Chiude il libro, tamburella le punte delle dita sulla copertina. Ancora non riesce a crederci. Ancora non riesce a masticare l’emozione d’avere tra le mani il libro della sua studentessa. E in quel libro c’è anche qualcosa che lo riguarda. Qualcosa che parla di lui. Ricordi, frammenti di passato, pomeriggi passati a inventare storie e giochi di parole tra i muri di una scuola.
Il signor Cheatham si alza con movimenti lenti, afferra il bastone e si incammina verso l’uscita. Il libraio lo saluta, gli apre la porta, si ferma con lui sull’uscio a osservare il cielo.
C’è un’aria umida, un profumo di pioggia in arrivo, uno spesso strato di nuvole che nasconde la luce e riempie di ombre la strada.
Il signor Cheatham pensa alla fattoria di Arnie, ai campi di grano maturo e al vento che li frusta, rischiando di rovinarli. Pensa alla prima casa di Sarah: una baracca rossa nella prateria. Pensa alla vita di Sarah adesso e a un tratto gli viene voglia di correre anche se ha le gambe malferme. Le prime gocce di goccia gli bagnano la faccia. Per fortuna abita lì vicino e non rischia di beccarsi l’acquazzone in testa. Per fortuna ha voglia di ridere anche sotto il cielo scuro del Kansas.


Ohio

di Alessandra Banfi

‹‹Per ora sappiate che è successo qualcosa.››

Dimentico subito questo consiglio. Lo dimentico in modo ingenuo, perdendo la rotta tra i gesti del ragazzo che incontro nel primo capitolo, Bill, fulminato dall’acido e reduce da quattordici ore di viaggio in auto.
Da bordo pagina lo osservo a bordo strada. È rimasto a piedi. Il suo pick-up sgangherato ha il serbatoio vuoto e la stazione di servizio più vicina è a tre chilometri da lì. Bill è appena tornato nel posto in cui è nato. Un marasma di ricordi si ingarbuglia alle allucinazioni che portano a spasso il suo cervello verso squarci di universo sconosciuti. Bill impreca, ride e si dispera. Lo seguo incuriosita e mi distraggo. Per questo mi dimentico che è successo qualcosa. Per questo, anche se Bill ha un appuntamento con non so chi e un pacco di non so cosa da consegnare, io comincio a credere che forse il nocciolo del discorso sia questo. Il ricordo. Uno spazio sigillato nel quale nascondere quello che ti pare. Un posto in cui sentirsi al sicuro. O una macchia sbiadita, mai del tutto scomparsa, capace di rovinare per sempre il tuo abito preferito.
Non è difficile immedesimarsi e incrociare vecchi amici segnati dalle intemperie della vita, ma avverto lo stesso un po’ di ruvido sulla pelle. Non sono mai troppo felice quando incontro qualcuno con cui ho tagliato i ponti. La distanza creata con coscienza è un affare così delicato che basta un niente per rovinare l’abitudine ad un’assenza.
Poi, a un tratto, seduta ad ascoltare le chiacchiere stiracchiate tra un uomo a cui è rimasto un solo occhio buono e una donna che non ha mai smesso di pensare a lui, realizzo che oltre alla questione dei ricordi c’è dell’altro. Ritorno a quel consiglio. È successo qualcosa. Mi guardo attorno per chiarire la situazione. Come posso esserci cascata? Scuoto i ricordi e allontano la nostalgia che mi ha fatto prendere la strada sbagliata. Ora sembra tutto così viscido e pericoloso. Annaspo tra i dettagli, mi infilo tra le ombre di un passato che non mi appartiene e che tuttavia ha il potere di risucchiarmi per svelare la sua verità. Una verità che si contorce insieme al mio stomaco. La provincia americana diventa così vicina e racconta un male dai contorni sfumati nel quale i ruoli di vittima e carnefice si mescolano fino a confondersi. Preferirei non sapere e non vedere, ma non posso – non voglio – chiudere gli occhi e spegnere la testa, così ascolto, osservo. Quello che è successo mi fa un male cane. Leggo in apnea. Capisco solo adesso. Arrivano il buio, il silenzio. Ho i muscoli indolenziti. Provo un dispiacere che si avvicina all’angoscia, ma c’è spazio per l’ultimo incontro. Per l’ultimo flusso di parole sotto un temporale che inonda la città scrosciando fiotti di pioggia. Cerco di riprendermi. Vorrei tanto avvicinarmi per dire a S: “Ehi, ha pensato a te. In quel momento là, ha proprio pensato a te”. Ma io sono qui e lei non può sentirmi.
Arriva la fine. Chiudo il libro piano piano per non fare del male a S.
S. che ha sfiorato la verità e un giorno, ne sono sicura, riuscirà a ricomporre i frammenti di ciò che è stato.

Ciao Vita

di Giovanni Di Prizito

‹‹I sudamericani hanno un modo per definire quelli che vivono alla giornata, come facevamo noi a quei tempi. Li chiamano despreocupados de la vida.››

Non più tardi di venti giorni fa l’esito negativo di un tampone mi ha messo addosso una certa dose di ottimismo verso la vita. C’era il sole e Bologna era particolarmente bella. Malgrado le automobili, i rumori, l’asfalto e il tanfo ripugnante dei gas di scarico; malgrado la mascherina. Così, uscito dalla farmacia Zarri, mi sono fiondato nella libreria. Piazza Galvani numero Uno.

Acquistato Ciao Vita di Giampiero Rigosi, ho pedalato fino a Villa Ghigi, mi sono buttato sull’erba e ho guardato il cielo. Era più grande del solito. Tutt’intorno invece non c’era nessuno, vuoi la pandemia, vuoi la virologia, vuoi l’aracnofobia, vuoi le formiche dentro ai pantaloni. Solitario, come un cane sciolto, fiutavo la primavera e l’odore delle pagine ancora ignote. Poi, senza troppi indugi, Sergio e Vitaliano hanno preso a raccontarmi le loro storie; il primo ‹‹si diceva rivoluzionario ma in effetti era riformista››, il secondo sciorinava ‹‹il suo anarchismo istintivo.›› Sergio mi raccontava di quando, a Colle Oppio, si aggirava tra gli spacciatori cercando di procurarsene almeno dieci, quindici grammi, pensando che forse avrebbe fatto meglio ad andare al Pigneto o a Tor Bella Monaca. Io allora, a leggere certi nomi, ho chiuso gli occhi e sono tornato a quando, quindici anni addietro, sopra a quel colle ci passavo tutti i giorni.

Insieme a Claudio, Riccardo, Katia, Andrea, Eleonora, Stefania, Chiara, Luca, Simone, Nicola, Mara, Teo, Paolo, Thomas, Fabio, Marco, Silvia, Giuliano, Martina, Alessio e Valerio. A parlare di derivate, integrali, formule fisiche e sessioni di esami, con la leggerezza di chi vive alla giornata e si preoccupa dei voti. Insieme a Roma, ‹‹mignotta, ipocrita, corruttrice, eppure magnifica.››

Fermo, li scruto. Paolo e Stefania se la ridono, Claudio bullizza Riccardo, Teo abbraccia Mara, Silvia e Andrea giocano a tressette, Valerio e Nicola pensano all’Erasmus, Alessio ascolta Eleonora, mentre Katia mi guarda e sorride. Poi mi faccio da parte, torno al motorino, metto in moto e comincio a zigzagare tra le auto incagliate nel traffico. Costeggio l’Università, percorro Via delle Sette Sale, sbuco in Largo Brancaccio e mi ritrovo in Via Merulana, quella del pasticciaccio. Mi fermo, leggo la targa – Al civico 219 in origine ingresso di questo palazzo Carlo Emilio Gadda ambienta le drammatiche vicende del romanzo – e vado avanti. L’aria è ‹‹satura di anidride solforosa, diossido di azoto, piombo, benzene, monossido di carbonio.›› Roma è bellissima.

Sdraiato sull’erba, sotto un sole che non faceva che dire ecchime!, Sergio e Vitaliano continuavano a raccontarmi le storie. Quelle del settembre 1977, quando si aggiravano per le strade di Bologna ‹‹frastornati da tutti quei ragazzi che ridevano, fumavano spinelli, gridavano slogan, bevevano, suonavano, ballavano, si baciavano, discutevano su possibili forme di ribellione›› e quando ‹‹Piazza VIII agosto, allo spettacolo conclusivo di Dario Fo, era stipata di persone›› e ‹‹l’aria sapeva di hashish, patchouli e sudore.›› Sergio e Vitaliano, in un vortice di emotività e malinconia, mi parlavano di promesse e tradimenti. E io ricordavo tutto.

Pagina contro pagina non facevo che pensare e ripensare a tutte le possibili vite, a quelle mai vissute e a quelle rimaste sospese tra un confinamento e l’altro. Sergio era convinto che il vero problema non fosse il passato reale, ma quello possibile, e che ‹‹ognuno ha un momento a cui vorrebbe tornare, per rivivere dei momenti felici o prendere decisioni diverse.›› Il vero problema, mi disse mentre pensavo e ripensavo a quei momenti lì, è che ‹‹per me, come per tutti, non è possibile››.

Storia di Shuggie Bain

di Alessandra Banfi

‹‹Promettiamo di essere nuovi di zecca. Promettiamo di essere semplicemente normali.››

Non mi sono affezionata subito, per intenderci. Anzi, all’inizio ho provato un insistente prurito alle mani. C’era puzza di pregiudizio nella mia testa, era chiaro, o forse era solo una specie di autodifesa contro quello che stavo leggendo e che mi faceva ripetere vabbè, a me non potrebbe mai capitare di cadere così in basso.
L’idea che io – in quella casa, tra quelle persone – avrei fatto la differenza, e in meglio.
Me ne sono vergognata, all’istante. Ho preso il pregiudizio e l’ho schiacciato in fondo alla tasca dei jeans. Ho sospeso qualsiasi commento, ho tolto le scarpe e sono entrata in punta di piedi in questa famiglia malconcia, assorbendo quello che c’era da assorbire, senza pensarci troppo.
Non ho del tutto accettato la scelta di Catherine, ma ho ascoltato i silenzi di Leek, compreso le migliori intenzioni-illusioni di Shuggie e osservato Agnes con la speranza che per lei – per tutti – qualcosa di buono potesse arrivare, prima o poi.
Basta poco per farsi del male, basta un niente. Magari è solo stanchezza. Molli la presa, ti siedi, resti a guardare la vita che va a rotoli ed è fatta. Potrei farlo anch’io. Potrebbe farlo chiunque. Quante volte ci sono andata vicina. Quante ne verranno ancora.
È stata un’immersione lenta. Prima la rabbia, la stizza. Poi un sospiro, la voglia di mettersi in ascolto. La speranza. Piccola, minuscola, trasparente, tutta tesa a trovare un po’ di pace. Pagina dopo pagina, le sconfitte, i ritorni, i tentativi, le legnate, le parentesi sottili di quasi-felicità. Poi ho capito. O almeno, credo di aver capito. Questa Agnes – la faccia che ricorda quella di Liz Taylor, i collant strappati, le notti alcoliche, il cappotto buono e la testa alta – mi ricorda la normalità. Una normalità che fa male e non fa miracoli, ma irrigidisce i ruoli, definisce la trama e ti chiude in un copione dal quale non puoi fuggire. La normalità di tanti, di troppi. Poi cala il sipario e non c’è niente per cui sorridere. Restano le ombre delle cose che potevano essere e che non sono state. I brandelli di una vita fatta a pezzi. Bisogna farci i conti e incassare il colpo. È così che mi ritrovo a fare la lista delle cose buone. Voglio ripescare un po’ di speranza. Per me, per chi è scappato, per chi ha osservato a distanza. Per chi, come Shuggie, ha deciso di restare.
Un’amica conosciuta per caso in un pomeriggio partito storto.
Un fratello che rimane, malgrado tutto, una persona sulla quale poter contare.
Una sorella lontana che forse sta costruendo una vita normale.
Una piroetta fatta sui tacchi di un paio di scarpe tirate a lucido.

Parlarne tra amici

di Sara Maria Morganti

«Con lei non avevo la sensazione, come invece avevo con tanti altri, che mentre parlavo stesse solo preparando la prossima cosa da dire.»

Siamo amiche da più di dieci anni. Ci siamo conosciute il primo anno di università e non ci siamo più mollate. Abbiamo viaggiato, abbiamo vissuto lontane, ma adesso siamo a cena insieme. È una cena strana, perché inizia alle 19 e sappiamo che durerà poco, per colpa del coprifuoco. Proviamo la sensazione che ci stiano mutilando il tempo, però facciamo finta di niente.

Siamo noi due, ma stasera siamo quattro. Le due persone che sono con noi non si conoscono bene. Ho l’impressione che “le fidanzate” sappiano meglio come comportarsi in queste situazioni rispetto a “i fidanzati”, che risultano spesso più impacciati. Ma forse sono semplicemente più sinceri. I nostri, comunque, trovano qualcosa di cui parlare, creando piccole e momentanee sinergie: la bicicletta, l’erba, la cucina. Fumano tabacco rollato, mentre la mia amica apre la porta al ragazzo del ristorante che ci ha portato antipasti misti e schiacciate farcite

Dopo cena mi avvicino all’altalena azzurra che è appesa al soffitto e che è anche tatuata sulla pelle della mia amica e del suo fidanzato. Mi sento colpevole quando mi ci siedo. Lì vicino c’è una pila di libri e riviste che si alza da terra. L’ultima volta che mi sono seduta su quell’altalena ho preso in prestito un libro di Veronesi, che lei adora. Stasera mi attira una costola bianca che dice “ROONEY PARLARNE TRA AMICI”. La mia amica si avvicina e mi dice bello, bellissimo, quello è un gran cazzo di libro.

Parliamo del fatto che l’autrice è giovanissima e per l’ennesima volta il sogno di diventare una scrittrice si spezza dentro di me. Ogni tot ci penso e stac!, si frantuma, come uno specchio che ha preso un colpo poi magicamente si ricostruisce. Non capisco.

Sono così invidiosa che il giorno dopo cercherò su internet delle foto di questa Rooney, per vedere se è anche carina. La mia amica mi aveva detto che non lo era, ma quella sera non le avevo creduto.  Lo sfoglio velocemente e leggo “Bobbi mi reggeva i capelli”, mentre la mia amica mi dice ecco, questo è uno di quei libri che mi hanno fatta eccitare. Cerco di rievocare nella mia testa i libri che hanno fatto eccitare me, ma me ne viene in mente solo uno. Non lo dico perché non ho voglia di raccontare di quella volta in cui mi sono masturbata leggendo un libro. Se fossimo state solo noi due, probabilmente l’avrei detto.

Frances a Bobbi non lo dice, comunque. Anche se sono ex fidanzate e migliori amiche. Non glielo dice della sua storia con Nick, che è sposato con Melissa, anche se non dormono più insieme. Non glielo dice perché ha paura che Bobbi lo racconti a Melissa, dato che sembrano così legate? Non glielo dice perché un po’ si sente in colpa di avere una relazione con un uomo sposato? Oppure non glielo dice perché vuole che questa cosa sia solo sua, una cosa in cui finalmente Bobbi non c’entra? Lei che è più bella, più strutturata, più capace di stare in mezzo alla gente. Lei che è stato il suo grande amore.

Mentre leggo il libro cerco di riconoscere i momenti che hanno fatto eccitare la mia amica. Lui che posa una bevanda fresca dietro il ginocchio di lei. Lui che le infila una mano sotto il cappotto e, dato che oltre a quello non indossa niente, le tocca il seno con facilità. Immagino di vivere quegli stessi momenti con il mio ragazzo, poi con Nick, ma la fantasia dura poco e si dissolve. Non regge.

Finisco il libro e mi ricordo che l’amore è una questione complicata. Questa consapevolezza m’investe come un tir in piena faccia. Soppeso in silenzio la possibilità di scrivere un racconto in cui ne parlo: un racconto in cui compaia l’altalena azzurra e quel momento in cui, spalla a spalla, abbiamo assemblato ordinatamente quattro ricottine fresche su ampi piatti di porcellana e poi ci siamo leccate le dita felici.

Proprio come fa Frances, che scrive un racconto in cui parla di Bobbi, ma del quale a Bobbi non riesce a parlare.

 

Aldobrando

di Marcovaldo

«Acqua guardata non bolle mai»

Il gatto sbagliato ha il pelo bianco e gli occhi rossi, ma forse il loro colore dipende dal fuoco che sta scaldando il grande calderone appeso in mezzo alla stanza. Il gatto sbagliato è fiacco e gracile, ma non ha alcuna intenzione di finire bollito, per questo soffia forte FFFFF e scappa con la coda dritta.

È il gatto sbagliato perché l’ha scelto Aldobrando, con le sue pupille scure, piccole e vicine, le sopracciglia folte, il fisico scheletrico e la spada di legno.

Si capisce subito che Aldobrando non è molto capace, non se ne intende, perché non sa distinguere la destra dalla sinistra e sa contare solo fino a venti. Ma adesso è arrivato il momento di crescere: deve andare nel mondo, deve correre a cercare l’erba del lupo e salvare l’occhio del maestro, sfregiato dal gatto sbagliato.

Quello che nasconde Aldobrando, al principio di tutto, proprio non si vede. Quello che si trova sotto il ciuffo di capelli che gli cresce sulla cima della testa, dietro la casacca leggera a maniche corte che indossa anche nella neve, e in mezzo alle esili gambe da merlo. Quello che nasconde viene fuori dopo, tra parole e tratti di matita, quando le esistenze di altri personaggi si annodano alla sua. Aldobrando incontra e conosce, si interroga e non resta mai indifferente. Cerca il perché delle cose e va sotto la superficie, nelle viscere degli eventi nei quali ruzzola un po’ spaesato.

Il destino degli altri segna quello di Aldobrando. Lo ammacca, lo confonde, lo consola, lo guarisce, lo salva. Ognuno ha il proprio ruolo, una trama da svelare, un motivo per cui agire.

Sir Gennaro Montecapoleone delle Due Fontane, che si dichiara padrone di Aldobrando per via di una certa tana presa in prestito. Il Boccamarcia (di nome e di fatto), Beniamino l’Ucciditore (che Ucciditore l’hanno fatto diventare), la schiava Viola e Dufficio (che annota sempre tutto, e meno male!). E poi lei, la Principessa Bianca, grazie alla quale, durante il suo lungo e avventuroso viaggio, Aldobrando intuisce che l’amore non è un posto dove si pensa solo ai comodi propri.

Anche noi del Marcovaldo, aggrovigliati alle sue gesta, abbiamo di nuovo la sensazione di riuscire a vedere del buono nel marasma di guai in cui possiamo inciampare o finire intrappolati.

Le cose storte si aggiustano, le storie spezzate si ricompongono, i sovrani nullafacenti escono di scena e noi – almeno qui, almeno con questo Aldobrando fatto di carta e cuore – tiriamo un sospiro di sollievo e impariamo un segreto. Il più importante di tutti. Il più difficile, sicuramente.

Presagio triste

di Alessandra Banfi

Non è difficile immaginare la zia. Ha il colore della luna, i capelli legati stretti, i piedi scalzi, il pigiama. È seduta al pianoforte, sta suonando. La casa è vecchia – molto vecchia – e le finestre sono aperte sulla notte. La musica riempie la stanza e sguscia oltre i davanzali, si infila tra le foglie e i rami degli alberi del giardino, scuotendoli un po’. In cielo c’è qualche nuvola, ma si tratta di nuvole sfilacciate e leggere che non possono creare ombre. I riflessi bianchi della luna sono dovunque.
La zia mangia quando ne ha voglia e dorme fino a quando ne sente il bisogno. Qui non ci sono orari da rispettare. Ne approfitto per fare quello che mi pare e mi sposto nel corridoio con il libro che sto leggendo, spingo una porta socchiusa, dico permesso anche se nessuno può sentirmi. Sono sola, la zia Yukino è di là e muove le dita sui tasti del pianoforte, incurante della mia passeggiata notturna.
La camera dietro la porta è un delirio di oggetti rovesciati sul letto e sul tappeto. Mi fermo sulla soglia a osservare.
Fogli di carta ripiegati, monetine, una piccola borsa di stoffa, un astuccio di pelle, tovaglioli appallottolati, una scarpa nera e lucida dal corto tacco consumato.
Il letto è sfatto e le coperte ricadono sul pavimento sporco. Forse dovrei rendermi utile e rimettere un po’ d’ordine.
La casa non è mai pulita a dovere e il giardino sul retro è zeppo di cumuli di cose dimenticate “come non ci fossero mai state“. Ma è un caos che mi affascina.
Nell’angolo accanto alla finestra c’è una scrivania di legno. Ha l’odore dei boschi inzuppati d’acqua. Appoggio il libro sulla sua superficie ruvida, avvicino la sedia e mi metto comoda. Riprendo la lettura. Il suono del pianoforte si trasforma in un sottofondo lontano.
Potrei leggere all’infinito di questa zia da fiaba. Di lei e delle sue stanze scricchiolanti. Provo invidia per il mondo raccolto tra queste mura fatiscenti e per questa polvere fitta e lanosa che rende soffici le piastrelle su cui appoggio i piedi. La mia idea di casa è racchiusa in questa immagine.
Una tana. Uno spazio senza tempo in cui non si avverte alcun bisogno di farsi notare.
All’improvviso squilla il telefono. La zia Yukino smette di suonare il pianoforte, ma non si preoccupa di alzare il ricevitore e lascia che i trilli continuino: perché non va a rispondere? Potrei farlo io, però non è casa mia… e poi chi sarà mai, a quest’ora? Il telefono adesso tace e la camera è piena del silenzio della notte. Il fruscio delle foglie in giardino mi fa compagnia. Ritrovo il punto in cui ho interrotto la lettura, ma il telefono ricomincia a squillare. Mi distraggo subito, dopo poche righe.
La nuova chiamata si chiude nel silenzio di una mancata risposta per la seconda volta. E dopo qualche minuto si ripete la scena. Poi di nuovo e di nuovo ancora. Mi alzo e porto il libro con me accanto alla finestra. La luna sparisce, mi ritrovo al buio. Penso che è giusto così, l’ho appena letto, deve succedere per forza. La storia, per essere fedele, prevede uno scroscio d’acqua di quelli forti, roboanti. E infatti ecco le prime gocce. Grosse, pesanti. In pochi istanti il rumore della pioggia mi riempie la testa. Stringo il libro contro la pancia. L’aria adesso è fredda, appiccicosa. Nel nero della notte vedo scintillare la luce che illumina la finestra della sala. La zia è là, seduta in una posa tranquilla davanti al suo pianoforte. Mi volto e cammino cauta verso la porta, verso la luce della sala che si riflette lungo il corridoio. Ho l’impressione di muovermi al rallentatore. La distanza tra me e la zia sembra incolmabile. Poi mi ritrovo nella sala con lei, non so come… Giusto il tempo di appoggiare lo sguardo sulla sua figura esile e il suono del campanello di casa arriva fin lì sopra, mescolato al tic tac dell’acqua e al frusciare leggero dei piedi della zia sul pavimento.
Deve andare proprio così. Riapro il libro alla pagina numero diciotto e la nipote di zia Yukino ci ha appena raggiunte, spinta da un triste presagio. Continuo a leggere.
Dalle scale arrivano le voci delle due donne. Si salutano, si scambiano qualche battuta.
Mi faccio un po’ da parte, non voglio essere di troppo.
Yanoy è fradicia. Appoggia a terra un borsone. Zia Yukino mette a scaldare dell’acqua. Quello che ci vuole adesso, prima di continuare la storia, è un tè bollente ben zuccherato.

Sonetti erotici e meditativi

di Robespierre Capponi

«Dateme un omo che nnun abbi vizzi: diteme cuale cazzo nun z’addrizzi.»

Per sommi capi, i sonetti erotici e meditativi scritti dal grande poeta Giuseppe Gioacchino Belli sono un encomio alla sorca e all’uscello, ci esortano a ffotte senza ritegno, senza star troppo lì a indugiare; e lo fanno con un incommensurabile memento mori che fa così: «arricordateve che cresce il naso, crescono li cojjoni e cala il cazzo». 
Con il Belli il popolo romano, minacciato dalla società del tempo alla pena capitale «de morì ammazzato dentro un cuore e una capanna», trova una piazza dove spolmonare liberamente il proprio dissenso, la propria contrarietà alla castità, la propria avversione nei confronti della società dei preti e dei loro inaccettabili soprusi; e della loro storiella che a scopà come i cani si fa peccato.
E chissà perché se ssò inventati sta fregnaccia, li preti, agucchiatori delle fesse nostre: mortacci loro! Forse se la ssò inventati pe’ sto cazzo de decoro, che a ffotte in mezzo ai fori imperiali a cielo aperto non sta bene che no; o forse se la ssò inventati per contrastare l’aumento demografico, ché tante bocche da sfamà minacciavano le proprie de bocche, vallo a sapè perché.
Credo che questa guerra che la società dei preti abbia fatto a noialtri, poveri fijji de miggnotte, con il risultato di toglierci la libertà del corpo, sia stata vinta da mo’; basti osservare la nostra epoca, dove il sesso senza amore non è come dovrebbe essere, ossia un bisogno corporale al pari de cacà. Il che dovrebbe facce riflette. E infatti, a pensarci bene, dopo che abbiamo defecato ci sentiamo carichi di una certa sensazione di libertà, o no? Al contrario, un orgasmo senza amore ci fa sentire in qualche modo prigionieri della nostra nudità, del nostro imbarazzo, della nostra solitudine e fors’anche della nostra amarezza.
Ci hanno tolto il piacere de ffotte pe’ ce spassà, ci hanno tolto il piacere della carnalità e brutalità dell’atto sessuale fine a se stesso. Ci hanno tolto la naturalezza del movimento, la spontaneità della messa in scena, il piacere de fasse inculà: questa è la «santa iggnuda e vvera verità». Allora a noialtri nun ce sta bene che no. Vogliamo scopà perdio!

Ma per fortuna però che ce ssò le poesie del Belli, almeno ce possiamo masturbà: o si diventa ciechi per questo?
Oppure possiamo iniziare a prendere sul serio le sante parole del Belli e smettere di dar retta ai pretacci, possiamo iniziare ad ascoltare il nostro corpo e magara fottere in mezzo alle vie.
E allora beati coloro che leggono il Belli e che fanno all’amore come si cacano semi di lino, con disinvoltura, perché guadagneranno il regno dei cieli qui e ora, «in sto monnaccio iniquo e ppeccatore».

 

L’arte di legare le persone

di Alessandra Banfi

‹‹La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.››

A pagina due mi sono ricordata delle patate.
La pentola era grande, l’acqua al livello giusto, le patate belle grosse.
Mi muovevo in cucina, ma l’attenzione era tutta per le voci in fondo al corridoio. Voci alte e piene di rabbia. In comunità tirava una brutta aria già dal primo pomeriggio. Non ero da sola, c’era anche la mia collega. Era lei a tenere sott’occhio la situazione. Poi è successo, ed è successo quando le patate erano ancora crude. Un putiferio, una bufera di imprecazioni e urla, rumori di cose sbattute. Mi sono catapultata in fondo al corridoio.
Mani che stringono, piedi che colpiscono, oggetti che volano. Il figlio contro la madre.
Ci siamo messe in mezzo – io e la collega – e il figlio, a un certo punto, si è anche dato una calmata. Per un attimo ci siamo illuse, vabbè, forse la smette, si è sfogato. Invece stava solo riprendendo fiato. Ha ricominciato a menare la madre più forte di prima. Mi si offusca la memoria, ma rivedo i suoi occhi sbarrati e la sua pelle color vinaccia. In testa un solo pensiero: ora ‘sto ragazzo scoppia, va in mille pezzi e muore. Non può resistere a questa pressione.
Poi è arrivata l’ambulanza. Il medico è apparso in salotto. Un angelo che porta pace. Non ricordo la sua faccia, ma era piena di luce, ne sono sicura. Un’apparizione mistica. Grazie dottore.
Le patate, intanto, sono diventate poltiglia. Un purè.

Leggo L’arte di legare le persone di Paolo Milone… rido, piango e penso a tutte le volte in cui ho provato (e provo) la paura di perdere il controllo e impazzire.
Se mi elenchi i sintomi di una certa malattia mentale nel giro di dieci minuti me li sento tutti. Non posso farci niente. La sensazione di essere un po’ matta mi passa solo quando incrocio qualcuno poco più matto di me e allora mi sento io quella normale.
Continuo a leggere ed è tutto così assurdo, a volte, che mi scappa da ridere. Ma quando finisco di ridere ho un sapore amarissimo in bocca.

D. non parlava con nessuno. Era bellissima, ma non lo sapeva, non lo vedeva. A letto, sotto due o tre strati di coperte, si sentiva in pace con il mondo.
M. mangiava poco e aveva così paura dell’acqua che non si lavava mai.
C. è saltato dopo. A saluti fatti. Aveva desiderato tanto quel posto in officina e poi, quando l’ha ottenuto, si è scombinato tutto.

Leggo e cerco di immaginare quello che si prova lavorando sulle urgenze psichiatriche. Ma non ci riesco, è troppo complesso. Io certe cose le ho sfiorate da lontano, non sono un medico, e in Psichiatria ci sono entrata solo un paio di volte per fare delle visite a dei ricoverati. Lì ho ascoltato i racconti bestemmiati di un tossicodipendente – “sono di casa, qui”, diceva lui – e quelli di un ometto così cordiale e delicato che fatico ancora adesso ad associarlo a quel reparto. E la ragazzina che camminava nel corridoio strisciando la punta dell’indice lungo la parete, prima da un lato, poi dall’altro? Mi ha fissata per tutto il tempo con uno sguardo pieno di meraviglia e un sorriso rigido.
Ciò che fa paura, a volte, fa anche tenerezza. E invidio chi capisce, chi sa comunicare, chi riesce a trovare lo spiraglio buono, il gesto adatto. Chi riesce a ricucire lo strappo, mettere una pezza, ricomporre i cocci rotti.
Guardo la sveglia, dovrei dormire ma non ne ho voglia. Fa freddo, eppure ho in testa il profumo dell’erba umida in estate. L’erba che fruscia di notte. Ho voglia di un prato e di un cielo.
Spengo la luce della camera. Spalanco la finestra. Sollevo la tapparella. Mi infilo sotto le coperte. Riesco a vederlo. Il cielo è quasi limpido. C’è qualche stella. Al prato invece devo rinunciare. Mi accontento e rido. Sono le 00.40 e non mi sento tanto normale. Ma chissenefrega. Stasera va bene così.