Lo straniero

di Robespierre Capponi

“… devant cette nuit chargée de signes et d’étoiles, je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde.”

Ne Lo straniero, suo primo romanzo, Albert Camus racconta come la contingenza, l’hasard, la sorte abbia deviato il corso della vita di un uomo dedito ai bisogni fisici, incline ad ammazzare il tempo. Il caso buontempone di aver in tasca una pistola sotto un solleone.
Camus, attraverso la tecnica narrativa dell’io narrante, trascina il lettore dentro le consuetudini di Monsieur Meursault, il protagonista di questa storia; lo trascina dentro il suo “je”: j’ai pensé, j’ai senti, j’ai dit, j’ai fait, j’ai répondu, j’ai compris, j’ai remarqué, j’ai réfléchi, j’ai dîné.
Il leggitore è tirato dentro frasi telegrafiche quasiché ci fosse un’urgenza imminente, l’urgenza di affrontare la frase appresso, l’urgenza di vivere il presente, di appagare i propri bisogni fisici, di pisciare, di mangiare, di fottere, come se le necessità corporali fossero l’unica cosa che ci conta a questo mondo.
Leggendo si avverte come un’apprensione che pare di essere in un film di John Ford, dove gli indiani cattivi (sic!) sono pronti a comparire all’orizzonte da un momento all’altro. Anzi, l’occhio nudo può già vedere la polvere che alzano i cavalli al galoppo nella prateria e il cervello può già immaginare lo scalpo che l’indiano si prenderà.

Per via di tutta questa urgenza, il signor Meursault è tacciato dalla società in cui vive come un essere immorale e insensibile. Immorale e insensibile perché ha rinchiuso la madre in una casa di riposo, perché non piange al suo funerale; perché non ama la sua donna, perché non crede in dio, perché non gioca a fare l’adulto. D’altra parte, per sua stessa ammissione, la sua natura non gli consente di aver sentimenti, ché ci sono i bisogni fisici prima di tutto. Monsieur Meursault deve pisciare. Per la società questo è un’aggravante; è una colpa imperdonabile, perciò condannabile all’esecuzione capitale: la testa tagliata in una piazza pubblica in nome del popolo francese.

In questa lotta contro il tempo, è vero che maman est morte, ma tanto poi la morte non è che il fine della vita, ossia prepararsi a tutto rivivere.

Finché il caffè è caldo

di Martina Barbieri

«L’articolo di giornale sulla leggenda metropolitana del caffè chiudeva così: “In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?”»

C’è simbolo più vitale e sociale del caffè? Aroma antico che dilata le giornate con la sua carica energizzante. La scuola napoletana ne contempla l’intransigenza delle 3C (Comm-C***o-Coce) che tradotto vale a dire che il caffè si gusta solo cocente.

Mi chiedo spesso cosa sia questa novità del caffè freddo in estate e come possano alcuni bar non averlo affatto caldo nei lidi. Lo confesso: non pensavo si potesse scrivere un libro sull’importanza di bere il caffè caldo, poi ho scoperto il romanzo di Toshikazu Kawaguchi, Garzanti 2015, e mi sono ricreduta. Una bella storia, scorrevole, rilassante, ma anche e soprattutto delicata e al contempo intensa a partire proprio dal culto del caffè. Un culto tipicamente occidentale in una storia di ambientazione orientale.

Praticamente mi ha stregato già dalla copertina, che come se non bastasse il titolo Finché il caffè è caldo, vede pure un gatto sotto una sedia e un tavolo molto accogliente con due caffè fumanti ad ammaliarmi. (Amo i gatti e li venero da fedele molto devota al Gattolicesimo quale sono). In fondo che cos’è il caffè se non un pretesto per condividere momenti con le persone che amiamo? L’emblema del calore, un fatto affettivo. Vuoi mettere una lunga giornata senza ‘na tazzulella ‘e cafè?!? Non passerebbe mai e sarebbe tanto triste. Conosco persone che lo prendono addirittura dopo cena e poi dormono assai più tranquillamente di quando non lo prendono.

Per caffè s’intende anche un luogo di ritrovo, «un bar, un ristorante o più in generale un esercizio dedicato alla preparazione e vendita di cibi e bevande» – riporta il dizionario -, insomma, la cornice ideale dei rapporti umani. Quello protagonista del presente romanzo è un caffè – per l’appunto – molto speciale: misterioso, piccolo, raccolto, antiquato, frequentato da pochissime persone, quasi sempre le stesse, crocevia di rimorsi e di rimpianti. Piuttosto che un luogo fisico sembra quasi lo spazio rassicurante della coscienza umana ove deporre le proprie frustrazioni e affogarle nel calore di un caffè, a mo’ di espiazione. È la parabola dell’umanità nel suo percorso di vita. Quanti bivi e incroci in quel caffè! Mi sono scottata la mano anche io nell’impazienza di dover bere presto il mio, finché caldo. Pagina dopo pagina ne ho pregustato l’aroma, sentito l’odore e mi sono persa nei suoi vapori misti alla mia buona dose di malinconie legate ad un passato amaro, non zuccherato, che non si può cambiare. Ho atteso ansiosamente che la signora in abito bianco facesse la sua pausa toilette dalla lettura del romanzo per potermi accomodare a mia volta, in prima persona, su quella sedia magica capace di compiere viaggi nel tempo. Ho espresso ad occhi chiusi i connotati contingenti del mio desiderio di ritorno al passato: l’anno, il giorno, l’ora e la persona dalla quale tornare.

Ma a che pro, se tanto poi il presente non può cambiare?!? Per capire che ciò che conta non è modificare le circostanze, quanto noi stessi, che muta tutto in base alla nostra pace interiore. Credo, infatti, che uno dei più grandi e rassicuranti insegnamenti del romanzo sia che non possiamo cambiare l’andamento degli eventi nefasti, che pesa tanto più su di noi quando non abbiamo la coscienza a posto per accoglierli e accettarli; tuttavia, possiamo cambiare il nostro modo di rapportarci alle avversità della vita, vantando a nostra difesa una coscienza limpida, pulita, e allora chissà che un nostro diverso modo di essere non possa modificare se non il presente, il futuro?!? Di sicuro cambia lo stato di salute della nostra mente e questo influenza anche la realtà.

Finché il caffè è caldo è un mantra di vita, un inno al carpe diem, una metafora dell’esistenza che invita a vivere intensamente ogni momento, perché il nostro atteggiamento può fare la differenza anche su tutto ciò che non dipende da noi.

Morti di sonno

di Sara Maria Morganti

Inizio Morti di sonno a un’altitudine di 2.300 metri sul livello del mare, con i piedi infilati in un paio di orrende ciabatte blu e il culo parcheggiato su una seggiolina da campeggio ripiegabile Decathlon. Un sole molto vicino mi brucia la pelle e illumina le spesse pagine in bianco e nero che sfoglio combattendo contro il vento, ma comunque non mi interessano molto le condizioni atmosferiche. Ho camminato per giorni e oggi mi fermo.

Il fumetto di Reviati si apre con una finestrella sul mare, ma è un mare che non si fa desiderare, un mare infestato. Tutti quei fumi tossici che avvolgono la vita di Rino detto Koper e dei suoi compagni contrastano molto con l’aria tersa che sto respirando e tutto quel grigio, quel nero del fumetto non c’entra nulla con la luce che mi fa strizzare gli occhi. E nonostante questo io sto lì dentro con loro per tutto il tempo, in mezzo ai polpacci di quei ragazzini che giocano a calcio ogni giorno, perché il calcio è la cosa più importante, in mezzo ai gatti volanti e ai rospi brucianti, ai sassi lanciati e alle pesche rubate. C’è molto movimento in questo fumetto, anche se tutto avviene nello stesso luogo, perché da bambini si corre sempre, lo dice anche Rino, eppure non si ha fretta. Molto movimento in quella città romagnola vicino allo stabilimento ANIC e insieme molte cose non dette, come i balbettii di Sgnìz, come la mamma che ti accarezza la testa mentre un allarme costringe tutti in casa con le finestre sbarrate, come il babbo che piange in silenzio, come bere un altro bicchiere per riempirsi la bocca con l’alcol e non con le parole che vorresti dire a Ettore ma non puoi, perché lui se n’è andato presto e non lo sa cos’è successo dopo, e come glielo racconti cosa vuol dire crescere in un posto così?

Mi sembra che duri solo un attimo, molti anni in una manciata di minuti. All’improvviso anche io sono grande e quasi piango per quell’albero che era sempre stato lì senza mai dare fastidio a nessuno, o almeno così credevamo, Rino ed io, ma ci sbagliavamo perché l’hanno reciso alla base per fare un po’ d’ordine e di pulizia, finalmente, ce lo dice la vicina, e usa proprio queste parole: «ordine», «pulizia», «finalmente». All’improvviso tutto è seppellito sotto terra: le foglie e i fichi che l’albero lasciava cadere, il canale di scolo della città che puzzava di marcio e che era il nostro gioco più eroico, gli amici che ci son stati portati via.

Finisco Morti di sonno, che Coconino Press finiva di stampare per la prima volta undici anni e un mese fa, e sono sempre lì, ciabatte e seggiolina, eppure mi sento un po’ diversa e se chiudo gli occhi vedo rondini in bianco e nero.

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

di Giovanni Di Prizito

‹‹Ogni storia di uomo, matto o normale, è una mescolatura delle stesse cose, na cascanna di lacrime, qualche sorrisetto, na cinquina di gioie di straforo, e un dolore grosso come quando al cinema si spengono le luci.››

Certi libri sono come gli odori, riescono a trasportarti nel momento e nel luogo esatto in cui li hai letti per la prima volta. In un certo senso ti fanno viaggiare nel tempo. Quello che ho ripreso oggi, per esempio, l’ho letto in uno di quei momenti quando la vita la senti divampare dentro, un’esplosione emotiva che ti fa sentire un poco matto e un poco bambino. Quando lo stomaco si chiude, il cuore fa tututum tututum tututum tututum, le immagini scorrono e tu non puoi fare altro che sfiorarle. Questo puoi fare, niente. Fermo. Immobile. Non toccarle. Non dire una parola.

Se poi il libro in questione è su una cocciamatte, cioè su uno che parla da solo e che si mette le pietre in tasca per la paura di volare via, che usa poco la ragione e assai il cuore, che sente i rumori in testa e che vede quello che non c’è, un altro insomma un poco matto e un poco bambino, forse, in uno di quei momenti là, tra paturnie e piagnistei è meglio rimandarla la lettura. Ma se già dalla prima pagina dentro a quel libro ci entri pure tu rimandarla diventa impossibile, allora chiudi gli occhi e ti ci butti dentro alle fiamme.

Bonfiglio Liborio, per duecento-cinquanta pagine, mi ha preso la mano e mi ha fatto camminare insieme a lui, da quando è nato nel 1926 a quando è morto nel 2010. Bonfiglio Liborio mi ha raccontato, in prima persona e con la lingua tutta sgarbugliata, quello che ha vissuto, da quando era piccolo a quando era grande: scuola, apprendistato da barbiere, militare, case chiuse, guerra, Resistenza, lavoro in fabbrica, sindacato, manicomio e solitudine. Gli amori perduti, quelli ritrovati, gli amici operai, i segni neri, i rumori in testa, il maestro Cianfarra Romeo, il libro Cuore e il medico dei matti. Bonfiglio Liborio, in una giostra popolare di fallimenti, rivincite, solitudine e malinconia lunga ottanta-quattro anni, mi ha raccontato il coraggio e la follia. E più parlava, sempre tutto sgarbugliato, più il rumore aumentava – tututum tututum tututum tututum.

Io allora, a pensare e ripensare alle paturnie mie, mi sentivo come a lui, ‹‹tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello›› che non riusciva a fermare il rumore, ‹‹[…] perché uno più ricordi ha e più ci soffre di cuore, perché i ricordi sono solo ricordi e le cose che ti ricordi non tornano indietro vive […]››. La ragazza di fronte con la guida di Palermo, quella rannicchiata dall’altro lato che si mangiava le unghie – Dio che fastidio, quella che leggeva il libro sulla felicità, la signora al telefono che si lamentava delle ernie cervicali mentre io pensavo a quelle lombari, quella che sempre al telefono urlava prondo! prondo! e l’altra che rideva tutta scomposta, la bambina con il quaderno di Peppa Pig, il signore con le parole crociate e il cappello da pescatore, il controllore che controllava, la voce che contingentava, la sicurezza, la distanza, la mascherina, l’alcol, il disinfettante e i guanti. Tutto mi sembrava irreale. Tutto mi sembrava immaginario. Sopra a quel treno di primavera, in mezzo agli sconquassamenti dell’anima, tutto mi sembrava sbagliato. L’unico che mi capiva era Liborio. Gli altri invece mi guardavano come si guardano i matti, impauriti.

Era chiaro. Era prevedibile. Stavamo diventando una cosa sola. Io e Liborio camminavamo mano nella mano fregandocene delle ansie fameliche e di tutto il resto di questo mondo, tanto quelli come noi non li capisce nessuno, vanno solo messi al manicomio ‹‹[…] che è come una libreria dove al posto dei libri ci stanno i matti, tutti belli affilati nelle camerate proprio come i libri sullo scaffale […]››. Liborio mi raccontava di quando ce lo avevano portato per davvero allo ‹‹spedale pissichiatrico››, mentre io pensavo che per fortuna non esistevano più e che quindi me l’ero scampata. Pagina dopo pagina Liborio diventava il mio curatore, guaritore e confessore, altro che matto, le sue parole facevano la luce e domavano l’incendio. E io ormai l’avevo capito, ‹‹[…] tutto dipendeva dalla mia forza di dentro […]››, solo che ‹‹non sapevo se quella forza ce l’avevo e dove la dovevo cercare […]››.

Ecco. Oggi che rificco il naso tra quelle pagine raggrinzite e ancora bagnate, oggi che riprendo in mano “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” di Remo Rapino e che rifaccio un pezzo di strada insieme a lui l’odore è lo stesso di quei momenti là. E allora oggi diventa ieri e io torno al treno, al viaggio di primavera, al confinamento, alle paturnie e ai piagnistei, alle immagini sfiorate, agli sconquassamenti dell’anima, ai ricordi mezzi vivi e mezzi morti, alla guida sicula e al cuore tutto sgarrupato che faceva rumore e penso, e un poco mi viene da sorridere a pensarlo, che alla fine Liborio non si era sbagliato, ‹‹perché ogni storia finisce, e se finisce, finisce, e non ci sta più parola da dire.››

Febbre

di Alessandra Banfi


“Ancora oggi io ho paura che Rozzano rivendichi il suo dominio, che si riprenda ciò che le spetta. Che sbuchi fuori all’improvviso da qualche parte, dai documenti, dai miei tratti del viso marcati, dalla sciatteria nel vestire e che mi costringa quindi a tornare di nuovo al confino, tra le sue vie coi nomi dei fiori”.

Tutto parte da un luogo – circoscritto, definitivo – brulicante di un’umanità che cerca di rimanere a galla. Un’umanità che si arrangia come può e resta in piedi con quello che ha (a volte poco più di niente).
L’ho sentita anch’io la febbre, a un certo punto del romanzo. A modo mio, per empatia.
Una di quelle febbri che ti sconquassano la pancia e arrivano su, fino alla testa.
Ho sentito la rabbia e la delusione per un destino che ti si appiccica alla pelle e non ti molla. Ma ho sentito anche la voglia di trovare una dimensione nuova, differente, nella quale essere quello che sei e non ciò che gli altri ti chiedono di essere.
Jonathan Bazzi è cresciuto a Rozzano.
Palazzi, cemento, voci sempre pronte a diventare urla o insulti. Mani che colpiscono e graffiano per stabilire gerarchie e confini.
Se non ti adegui sei fuori.
Se non ti allinei sei un perdente, un diverso, uno che non ce la fa.
Ma un bambino può scegliere di restare fedele a se stesso? Può scegliere di non allinearsi?
Jonathan-bambino l’ha fatto. Non si è allineato. Prima con la fantasia, poi, da adulto, rinunciando all’idea di nascondersi. L’ha fatto per strada, seguito dagli insulti di chi lo guardava passare. L’ha fatto a scuola, anche quando le parole faticavano a uscire dalle sue labbra. L’ha fatto dentro casa, nonostante le incomprensioni e i silenzi. Nonostante la noia, la paura, la solitudine. Nonostante tutto.
Ha trovato un altro modo. Un’altra strada, altre persone – compagni di viaggio, compagni di vita.
Febbre è la storia di una resistenza.
La resistenza di chi non sa picchiare, di chi non urla, di chi cerca il bello, di chi sceglie di non schierarsi dalla parte del più forte per convenienza o comodità. Una storia fatta di liti, separazioni e frasi gridate, eppure tra le righe di queste pagine ho trovato una tenerezza che non mi sarei mai aspettata.
Come nelle fiabe, quando fai il tifo per il personaggio lasciato solo o considerato da tutti un inetto, e tu capisci che è un’ingiustizia perché quel personaggio è capace di fare la differenza e la farà, stravolgendo il proprio destino e ribellandosi a un fato deciso dagli altri.
Febbre racconta gli agganci nei quali speri da una vita, quelli buoni. Quelli che ti tirano fuori da un mondo che (forse) non hai mai sentito tuo.
La scuola e il bisogno di essere il più bravo, un paio di amici ai quali puoi raccontare tutto, un amore nuovo. E poi la voglia, sempre e comunque, di non tirarsi indietro, di esprimere tutto te stesso. Anche quando stai male e scopri di essere sieropositivo.

“La malattia fa più paura finché rimane distante: quando ti arriva addosso, tutto diventa più facile”.

Un nuovo punto di vista, una prospettiva che non hai mai considerato, un’esperienza che entra a far parte del tuo orizzonte e scansa ogni desiderio di nascondersi o eclissarsi. 

Mi sono abituato all’idea che mi dovrei vergognare di quello che sono e ho capito che il patto velenoso si può spezzare raccontando tutto.”

La periferia è uno spazio mentale in cui perdersi. Ci si amalgama, ci si annulla e si accetta il ruolo al quale si è predestinati.
La periferia è nella testa delle persone, ai margini delle città, ma anche nelle vie del centro, nei paesi, nelle case perbene di chi si considera sempre nel giusto, nel disprezzo che proviamo verso chi non la pensa come noi, nell’arroganza di chi pretende di essere un gradino più in alto degli altri. La periferia – la realtà – è piena di streghe, orchi e bambini abbandonati nel bosco. Come nelle fiabe. Ma puoi scegliere da che parte stare e puoi scegliere di non tacere. Essere quello che sei senza alzare la voce.
Jonathan ce l’ha fatta.





Amianto, una storia operaia

di Robespierre Capponi

«Quando da piccolo la maestra mi chiedeva quale era il lavoro di mio padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa volesse dire».

Maremma cane, me li ricordo quei momenti interminabili in cui la maestra ci domandava che mestiere facessero i genitori o, ancor peggio, da dove provenissero. Quel tipo di domande avevano il dono di spingermi nel precipizio di una certa difficoltà, a tal punto che speravo non arrivasse mai il mio turno. Non capivo poi perché arrivava, il mio turno, e soprattutto perché fosse così importante conoscere l’estrazione sociale, o territoriale, dei miei genitori.

Per il compagno Alberto Prunetti, autore di Amianto, una storia operaia, non è andata così. Lo scrittore toscano non veniva costretto a provare disagio quando la maestra gli chiedeva quale fosse il mestiere del su’ babbo; e non era costretto a provare disagio perché nella scuola che frequentava i poveracci non erano i figli delle fabbriche, ma gli altri, i figli dei ricchi, le mezze seghe che non sapevano neanche tirare un calcio al pallone.

Con Amianto, primo libro della fondamentale trilogia working class, Prunetti racconta la storia del su’ babbo Renato, saldatore tubista, eroe operaio, costretto dai padroni a saldare tubi sotto un telone ricoperto di amianto. Costretto «a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti», costretto ad ammalarsi per campare. Per un tocco di pane.
Alberto Prunetti racconta la vicenda di Renato con grande coraggio, e lo fa mettendoci il canapone, cioè il cuore, che «regge più del teflon». Lo fa rispettando la filettatura degli eventi, legando poi il tutto «con un dito sporco di mastice verde». Lo fa con le lacrime agli occhi, lacrime che, però, non perdono, perché Alberto ha stretto con forza le parole, «ma senza cattiveria».
C’è un punto preciso nel libro in cui questa stretta decisa la si vede benissimo. Ad un certo punto, infatti, la scrittura di Alberto Prunetti sembra non perdere più, sembra scorrere via fluida, senza singhiozzi e lacrime che annebbiano la vista e che fanno tremare la mano. Gli occhi si asciugano, la mano diventa sicura e la storia prende a scorrere via come un fiume in piena (è il lettore semmai che perde le lacrime). È come se tra le pagine il lutto venisse a poco a poco lubrificato nei suoi ingranaggi, elaborato.

La storia di Renato mi ha ricordato il muratore fiorentino Metello, leggendo Amianto ho incontrato le stesse facce amiche, le stesse coscienze pulite, le stesse mani faticate, e lo stesso identico nemico del romanzo di Pratolini: lo sfruttamento. I lavoratori continuano a essere «stretti nella morsa della fabbrica sia fisicamente, sia psicologicamente, perché lo stabilimento dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare». Pretende il diritto di ammazzare.

La storia di Renato, come la storia di Metello, appartiene a tutte le epoche, è una storia vecchia come il mondo, la storia dell’oppressione, dello sfruttamento, della barbarie; la storia infinita dei padroni (mai satolli come i polli e i preti) che sfruttano tutto lo sfruttabile, che si prendono tutto: i corpi, le menti, le vite. Mica altro. Il capitale non si limita a uccidere, consuma lentamente.
Le ferite inferte ai lavoratori, e ai loro cari, si fanno segni indelebili sulla pelle di chi parte e di chi resta, cicatrici d’ingiustizia, di nocività, di ricatti imperituri.

Ma, boiadé, non ci abbiamo fatto il callo.

L’animale che mi porto dentro

di Sara Maria Morganti

Erano molti mesi che non tornavo nella nostra casa di campagna, un piccolo casolare costruito anni fa da qualche mio lontano parente in mezzo alle colline toscane, poco distante dal confine con l’Umbria. Da quando mio nonno è morto, mia nonna ci abita da sola d’inverno e d’estate. In quel pezzo di campagna i cellulari non prendono e in televisione gli unici canali sintonizzati sono l’1, il 2 e il 3. È il posto ideale per leggere indisturbati: basta ignorare il gallo. Per questo avevo infilato in borsa L’animale che mi porto dentro, con l’intenzione di finirlo nel giorno e mezzo che avrei trascorso lì.

Ci sono sempre dei piccoli accadimenti magici legati alla lettura di un libro, ma sono convinta che le case di campagna facilitino la loro comparsa, o quanto meno la loro comprensione. Così, mentre leggevo le parole di Francesco Piccolo, scoprivo la casa guidarmi con gli strumenti che aveva a disposizione.

La prima sera, ad esempio, mia nonna stava guardando Rai 1 ed è iniziato “Techetechetè”, un programma che mi capita di ascoltare solo quando sono lì. Era uno speciale su Sandokan, in particolare sullo sceneggiato televisivo, che non avevo mai visto. E proprio mentre c’era Sandokan in tutte le salse dentro lo schermo del nostro televisore, ecco che dentro al libro leggevo delle sue imprese e del suo amore per Marianna. Sì, perché l’autore si paragona al pirata di Mompracem, feroce come una tigre, ma che rischia di perdere tutto per amore della perla di Labuan, nella quale riconosce una sua cotta adolescenziale.

«Divertente», ho pensato, se non che il giorno successivo, dopo pranzo, mia nonna stava guardando Rai 2. A “Io e te” l’ospite Bruno Vespa parlava del suo ultimo libro, in cui tratta di famose figure femminili del mondo dello spettacolo. Non stavo prestando molta attenzione, ma all’improvviso ho sentito Vespa citare le calze di Laura Antonelli in Malizia e mi è crollato il libro in grembo. Un film che non avevo mai sentito nominare fino a poco prima, quando lo avevo letto nel libro di Francesco Piccolo. E anche stavolta l’autore si immedesima col giovane Nino del film, che manda i fiori ad Angela ma quando lei lo scopre nega fino alla morte, perché si vergogna meno a ricattarla sessualmente che a dichiarare un gesto romantico.

Nonostante la condizione facilitata, devo ammettere di essere stata piuttosto lenta nella lettura, perché L’animale che mi porto dentro è un libro così privato e intimo che quasi mi vergognavo a leggerlo con mia nonna nella stessa stanza, come se lei potesse a sua volta leggermi nel pensiero. Mentre leggevo mi vergognano, ma m’indignavo anche e m’incazzavo, mi eccitavo e poi mi sentivo superiore in quanto donna e subito dopo sporca sempre per lo stesso motivo. A un certo punto volevo addirittura abbandonare del tutto perché sembra quasi che l’autore voglia dire che il motivo per cui si comporta da stronzo è che durante l’adolescenza ha sofferto di acne giovanile. Al che compostamente ho chiuso il libro e mi son detta «eh no, questo no.» Ma poi ho trovato il coraggio di andare avanti, anche perché sentivo la guida della casa, e ho capito che la questione è più profonda di così.

Piccolo parla piuttosto della pressione del gruppo dei maschi sugli altri maschi, istituendo un inquietante parallelo fra questa sorta di perenne controllo “anti-checca” e una vera e propria prigionia nel Panopticon. Un controllo che continua a essere esercitato nonostante il tempo e la distanza, attraverso il ricordo. Credo addirittura che la questione di fondo del libro sia riconducibile al solo rapporto dell’autore con suo padre ormai morto. Infatti il momento più tragicomico di tutti è quello del racconto della sua regressione mentale, improvvisa quanto singolare. Un uomo anziano ridotto a pura pulsione sessuale, che non distingue più le donne della sua vita (sua moglie, sua figlia, la moglie di suo figlio, la bandante), per cui tutte diventano oggetto di attenzioni sessuali. E questa pulsione è l’unica cosa che rimane, mentre il resto viene spazzato via: l’amore per i figli, persino la capacità di riconoscerli, l’amore per la moglie, ogni cosa.

Mi ha fatto venire in mente che quando ero bambina mia nonna accudiva una signora anziana e malata di Alzheimer, che tenevamo con noi. D’estate c’era anche lei nella nostra casa in campagna e io ricordo chiaramente la sua figura nel nostro cortile. Anche lei, come il padre di Piccolo, aveva dimenticato tutto e spesso, non sapendo dove si trovava, si avviava a piedi così com’era, in ciabatte e vestaglia da camera, dicendo che «andava a casa sua». Se nessuno se ne accorgeva, qualcuno la ritrovava lungo la strada, la caricava in macchina e la riaccompagnava da noi. Ricordo anche che scambiava sempre mio nonno per suo marito morto molti anni prima. Eppure non aveva alcun impulso sessuale nei suoi confronti, non se lo voleva portare a letto, non provava a toccarlo o a baciarlo: per lei mio nonno era il suo grande amore e basta. E se questa è una questione di genere, come Piccolo sembra voler lasciare intendere, allora non posso che sentirmi fortunata.

Il fantasma della signora Dilva è solo uno dei tanti che mi sono apparsi mentre leggevo il libro in cui Piccolo parla dei suoi. Terminata la lettura, prima di ripartire, ho salutato tutti i fantasmi legati a quella casa, parenti, amici dei miei nonni. Li ho guardati volto per volto e li ho trovati bellissimi. In tutta onestà, non invidio affatto Piccolo e i suoi fantasmi, che lo seguono ovunque, giudicanti e feroci.

Più dentro che fuori

di Alessandra Banfi

«Era da qualche giorno che ci pensavo. Cioè, pensavo a cosa avrei provato nell’affrontare un viaggio, come un tempo, quando stavo bene e odiavo restarmene a casa per una giornata intera. Si fatica, sai, a ricordare una vita che non ti appartiene più. È come tentare di far tornare alla memoria pezzi di storia di un’altra persona.»




 

So cosa vuol dire.

Stare sulla soglia di casa e avvertire le vertigini solo per aver considerato la distanza tra il tuo corpo e l’auto che hai parcheggiato lì fuori. E devi raggiungerla, quell’auto. Devi farlo adesso. Devi pure darti una mossa perché sei in ritardo.
(Saranno trenta metri. Più o meno. Ma tu sai che non ce la farai. E che da qui a lì succederà qualcosa di spaventoso, tragico, traumatizzante).

Entrare in un negozio e uscire subito dopo perché il locale ti sembra troppo piccolo, troppo buio, troppo stretto e ti senti soffocare… o magari perché è troppo grande, troppo affollato, troppo pieno di quella luce artificiale che ti riempie gli occhi e ti sdoppia la vista.

Scegliere la strada più lunga, ma meno trafficata (altrimenti sai che brutto se ti piglia il panico proprio davanti al semaforo rosso e non puoi premere l’acceleratore per scappare e distrarti?).

Fare chilometri per trovare un supermercato piccolo-piccolo con corsie spaziose, ben illuminate (ma non troppo), comodo parcheggio, nessuna attesa alla cassa.

Più dentro che fuori. Lo sono da un pezzo, forse da sempre.
Le gambe inchiodate, la schiena irrigidita, la testa che fa scintille e a un tratto non c’è più. Esplode. O implode, che ne so, fa lo stesso. Diventa in ogni caso inutilizzabile. Pausa. Tempo scaduto. Fine corsa. Si accomodi, prego, vuole un bicchiere d’acqua?
Momenti da sceneggiatura thriller. Ho provato a ignorare queste sequenze dell’orrore. Ho provato a piangermi addosso. Poi ho cercato di raccontare. Di riderci sopra.
Ora dico vabbè, posso farcela anche così.

Con Più dentro che fuori di Alessandra Scagliola, edito da Morellini, ho riso tantissimo. Ho riso perché certe fobie-ossessioni-nevrosi possono essere drammaticamente comiche. Lo possono essere anche quando assomigliano a quelle che conosci tu (o forse lo sono proprio per questo).
Se ci penso bene, a voler seguire la logica, avrei dovuto provare una gran paura, aprendo un libro così. Invece ho letto una pagina e un’altra e un’altra ancora e ho riso di continuo, davvero. E quando rido tutto sembra più facile, attraversabile, innocuo.

(Un potere incredibile, quello che ti permette di suscitare una risata negli altri. E lei, l’autrice, riesce a farlo con scioltezza).

La mia è stata una risata liberatoria. Una leggerezza improvvisa. Una voglia sanissima di prendersi in giro, lasciar correre, buttarsi nelle cose che piacciono pensando ma sì, vada come vada. Ci provo.
(Ps: ho riso anche dopo. A libro chiuso, mentre spazzolavo i denti, infilavo la maglietta, legavo le stringhe delle scarpe).

Ma a un certo punto della storia le cose si sono fatte un po’ più serie, o almeno questo è quello che ho sentito nel mio stomaco, eppure non è venuto meno lo spirito divertente e brioso (e paranoico, questo sempre) del racconto. Che poi non poteva che andare così. Le paure fanno il loro dovere, non possono farti sorridere-ridere e via, tutti a sbellicarsi. Arriva sempre il momento in cui riprendono in mano la situazione e tu, obbediente, abbassi la testa e magari ti arrendi.

«Forse ho esagerato. Forse ho sopravvalutato le mie possibilità. Forse ho sperato che realizzare un sogno mi guarisse. Forse ho sognato troppo in grande.»

Su questo non ho ancora le idee chiare. Dipende dai giorni. Sognare in grande mi fa stare bene, ne sono sicura. Certo, poi prendo delle bastonate terribili se i miei sogni si perdono nel vento o affogano nell’acqua o boh. Spariscono e basta.
Ma provo sempre un gran sollievo quando scopro che le cose belle riescono a cavarsela e sopravvivere anche nelle circostanze più assurde e impensabili. Come questa storia. Che è la storia di Patrizia, ma può essere la storia di tanti altri. Patrizia in viaggio da Torino a Dublino per salvare un amico che vuole farla finita. Patrizia che ha tante paure ma che, forse, ha anche la giusta incoscienza per tentare di affrontarle. Patrizia può assomigliarci, ricordarci un’amica o una persona incontrata tanti anni fa. Quella che non capivi perché ti pareva “strana”, quella che aveva chissà cosa in testa, ma che ti ha lasciato comunque qualcosa di buono a cui aggrapparti.
A me le cose belle piace trovarle anche qui, nelle storie delle persone che incrocio per caso, un pomeriggio d’estate, dentro le pagine di un libro.

Fahrenheit 451

di Robespierre Capponi

«La maggior parte di noi non può correre dappertutto, parlare con chiunque, conoscere tutte le città del mondo, perché non ha il tempo, i soldi e neppure tanti amici. Le cose che cerca, Montag, sono nel mondo, ma il solo modo che l’uomo medio può conoscerle è leggendo un libro».

Se critichi devi avere una proposta se no tanto vale che non critichi affatto, mi han detto pochi giorni fa. Anche perché per proporre bisogna essere dei gran propositori, invece per criticare basta essere dei criticoni, han proseguito.

Mentre imbronciato me ne stavo seduto alla scrivania pensando alla veridicità o meno di questo assunto, ho afferrato, in un raro momento di lucidità, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, edito da Mondadori nella collana tascabile ed economica degli Oscar, e ho iniziato a sfogliarlo prima e leggerlo attentamente poi.

Fahrenheit 451, un classico della fantascienza, è una storia stramba ambientata in una società futura ultra tecnologica dove i pompieri non hanno più il compito di spegnere gli incendi, ma di appiccarli. In quest’epoca nuova il fuoco non è più usato per scaldarsi, ma per bruciare libri a 451 gradi della scala Fahrenheit. «È un buon lavoro. Lunedì bruci Lugones, mercoledì Maupassant, venerdì Verne, bruciali tutti e poi brucia le ceneri».

È questo il nostro slogan ufficiale! Nella nostra società, dove nessuno ha più tempo per gli altri, i libri sono una minaccia, poiché potrebbero rendere infelici le persone, potrebbero fargli credere a chissà cosa, oppure a una società diversa, magari immaginifica, perché no alternativa, dove è concessa persino la possibilità di criticare senza per questo essere obbligati a far proposte.

Nella nostra società, «l’aggettivo “intellettuale” si è trasformato nella parolaccia che meritava di essere».

I libri, da noi, li si può solo imparare a memoria o nascondere in soffitta, sono il nemico da dissolvere, da far sparire, da bruciare, come Giordano Bruno a Campo de’ Fiori; non deve rimanere neanche un atomo del pensiero che vanno diffondendo. Vogliamo solo essere felici in questa nostra società! Qui la felicità è di tutti, senza nessuna discriminazione, non è come piazza affari che se qualcuno è felice c’è da qualche parte un povero infelice. Qui da noi non esistono i segni + e – a tenere insieme tutto. C’è solo il +.

È per questo che bisogna essere tanto grati al pompiere Montag, il mio vicino di casa, il protagonista di tutta questa storia; bisogna essergli tanto grati perché brucia libri con dovizia, e con loro tutte le menzogne di cui sono farciti. D’altra parte, «quando avevamo tutti i libri di cui c’era bisogno, continuavamo a cercare la scogliera più alta da cui buttarci». O no? La vita normale, tranquilla e monotona del mio vicino di casa Montag, è esemplare, un esempio per tutti noi. Legato com’è al suo lavoro, fedele a sua moglie e soprattutto alla vita che conduce, una vita piena di sana routine, in cui è molto meglio ingollare patatine fritte davanti a un gigantesco schermo piatto a quattro pareti piuttosto che domandarsi il perché delle cose. In una parola, il mio vicino Montag conduce una vita strafelice. La vita che noi tutti meritiamo. Non sia mai si faccia venire delle paturnie, dei ripensamenti o, dio non voglia, dei sensi di colpa: i libracci «erano solo uno dei ricettacoli in cui mettevamo le cose che avevamo paura di dimenticare», questo Montag lo sa, lo deve sapere.

Sono uscito da questo libro come si esce da una discoteca, tirando un forte sospiro di sollievo: fortunatamente solo nei libri di fantascienza esistono delle società così meschine.

Point Lenana

di Giovanni Di Prizito

‹‹[…] Eccoli, si abbracciano e iniziano la discesa, diretti alla vita che torna a scorrere, diretti a nuovi viaggi e nuove montagne da scalare, già consci che il mal d’Africa sarà sempre loro compagno.››

Mi trovavo sul Regionale Veloce 2276, il primo dei tre da Bologna ad Avigliana, cioè Val di Susa, il giorno in cui l’ho letto. Le sei ore e venti-tre minuti di viaggio mi sono parse fin dalla salita adatte alle cinquecento-cinquanta-due pagine più titoli di coda di Point Lenana, Giulio Einaudi Editore, 2013.

Point Lenana è un romanzo? No. Point Lenana è un saggio? Nemmeno. Point Lenana è una biografia? Non solo. ‹‹E dunque, che razza di libro è questo? […]›› Se lo sono chiesti gli autori, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara. Me lo sono chiesto pure io, subito, alla prima fermata, Anzola dell’Emilia. ‹‹La visione ci confermò che l’ibridazione di saggistica e narrativa era la chiave più adatta per raccontare la nostra storia. Il nostro libro sarebbe stato un “oggetto narrativo non-identificato”›› hanno chiarito loro, gli autori, riferendosi al documentario Doppio sogno all’Equatore di Carlo Alberto Pinelli, ‹‹[…] dalla prima all’ultima pagina in bilico tra inchiesta storica e non-fiction novel››. E dunque, che razza di storia è questa?

Kenya, 1943. Felice Benuzzi, soldato italiano – triestino d’origine – e prigioniero di guerra nel campo inglese di Nanyuki, vicino Nairobi, insieme a due altri prigionieri, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti, decide di evadere per scalare il Monte Kenya, arrivando dopo diciassette giorni sulla Punta Lenana. Compiuta l’impresa Felice e compagni tornano al campo e si riconsegnano agli inglesi. Prima nota. Sulla stessa punta i tre baldi giovani issano il beneamato tricolore. Seconda nota. Felice Benuzzi racconta questa storia in Fuga sul Kenya (1947), tradotto in inglese sotto il titolo di No Picnic on Mount Kenya, dove scrive della prigionia, dei giorni della fuga e del suo viscerale legame con la Montagna.

‹‹Ogni passo era una scoperta, un principio. Eravamo alla origine delle cose, quando i luoghi non avevano nome; ogni sguardo faceva scaturire dal nostro animo pensieri d’ammirazione, di gratitudine, di riverenza.››

Ebbene. Era chiara la natura, quanto meno sui generis, dell’accaduto. Altrettanto chiara era la mia voglia di capirci qualche cosa. Quindi. Chi era Felice Benuzzi? Un alpinista? Un irredentista? Un colonialista? Un fascista convinto? Un fascista pentito? Un italiano brava gente?

È successo all’altezza di Fiorenzuola, appena terminata la prima parte del libro, cioè quella dove gli autori presentano il lavoro, che ho cominciato a disseppellire la storia. Mentre il treno, storico in quanto tale, diventava macchina del tempo, io scavavo a mani nude, senza rendermi più nemmeno conto delle fermate, come se improvvisamente mi ci trovassi pure io in terra d’Africa, nel posto al sole a fare grande l’Italia, nel posto al sole a sognare l’Impero, nel posto al sole tra spose dodicenni – ‹‹¿dodici? ¡guarda che là è normale!›› – e maschi italici puro sangue.

Da Fiorenzuola in poi è stato tutto un assembramento di scalate, battaglie, guerre, conquiste, colonialismo, irredentismo, alpinismo, epoche e luoghi che Wu Ming 1 e Roberto Santachiara raccontano, con il loro ‹‹sguardo obliquo››, facendomele vedere per davvero le gesta italiche. In ordine cronologico. ‹‹1910-1930, Vienna, Trieste, la guerra, le montagne. 1930-1938, le montagne, i mali d’Africa, l’Impero. 1939-1946, la prigionia, l’armistizio, addio. 1946-1988, un homme considérable.››

Tra fermate assolate e matrimoni normali, sotto il fischio mai pago del treno mi sono ritrovato a sporcarmi le mani con il fango residuo del bel paese, a fare a pugni con le ‹‹tossine della retorica ufficiale››, a leggere di pulizie etniche, campi di concentramento, uso massiccio dei gas contro i civili, violazione di ogni diritto e convenzione internazionale, sempre nel posto al sole. Mi sono ritrovato, fermo a Torino Porta Nuova, convinto di stare a Tripoli, ma anche Adua, Addis Abeba, Misurata e Bengasi.

‹‹Il 23 dicembre, gli italiani hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Tacazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violazioni fatte dall’Italia ai suoi impegni internazionali.›› [Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, telegramma inviato alla Società delle Nazioni, 1935]

Più mi avvicinavo alla Val di Susa, più mi si parava dinnanzi, sbattuta per intero sotto agli occhi. Odorava di terra letamata appena bagnata, sterco, carne andata a male, ‹‹fieno ammuffito››, sangue fresco e gas di scarico. Quella storia, tutta italica, odorava di marcio. Quella storia faceva a pugni con tutte le altre storie.

‹‹Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopi si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerriglieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi.›› [Generale Colombini sulla battaglia dell’Amba Aradam, 10-19 febbraio 1936]

Mentre quella di Felice Benuzzi, ormai all’aria aperta, appariva chiara. Uno dei tanti (quanti?) che tacitamente (quanto volutamente?) avevano appoggiato quel regime e da cui, altrettanto tacitamente, se ne erano allontanati, cercando la redenzione, il riscatto e forse la libertà, nella Montagna. Quindi. Felice Benuzzi, futuro ‹‹homme considérable›› del dopo guerra, futuro Console Generale a Berlino e poi Ambasciatore in terra d’Uruguay, chi è stato? Un alpinista? Un colonialista? Un irredentista? Un fascista convinto? Un fascista pentito? Un italiano brava gente? Un poco di tutto? Si può essere un poco di tutto?

Arrivato a destinazione, pettinato e in orario, la Valle mi ha abbracciato. Nei giorni successivi mi sono messo alla ricerca di foto, immagini e documenti su Felice Benuzzi. Volevo andare oltre i titoli di coda, volevo capirci qualche cosa di più, volevo continuare a viaggiare. Sentivo la necessità, che era anche urgenza, di proseguire la lettura, come se la storia non fosse terminata, come se certi libri non terminassero con le pagine di carta. Ecco, Point Lenana fa proprio così, non finisce mai.

Un’infanzia

di Alessandra Banfi

“Il mio primo ricordo risale a dieci anni prima che nascessi, è di un posto dove non sono mai stato, e riguarda mio papà, che non ho mai conosciuto.”

Comprai questo libro a una bancarella dell’usato, credo. Non ricordo dove e nemmeno quando, forse ero in vacanza, è passato del tempo. Non lo so, non lo so proprio, e non so nemmeno perché lo scelsi. Di certo in quegli anni preferivo altre letture, altre storie, e infatti Un’infanzia ha vagato da un ripiano all’altro della libreria di casa senza mai essere sfogliato.
In ogni caso adesso è sulla mia scrivania, in cima a una pila di agendine, quaderni e fogli scarabocchiati, e non è più lo stesso libro di qualche giorno fa, posso giurarlo. Le pagine piene di pieghe (sì, ho l’abitudine di piegare l’angolo in alto delle mie pagine preferite per ritrovarle con facilità) lo gonfiano e gli impediscono di stare ben chiuso. La copertina è un po’ sollevata e ha il profumo della crema che spalmo sulle mani prima di mettermi a leggere.
Quando un libro mi piace lo sento invecchiare tra le dita, riesco a trasformarlo in un oggetto dall’aspetto trasandato in poche ore. Forse non sono una lettrice rispettosa. Ma io un libro così lo mangerei anche. Mangerei i paesaggi, gli odori, le persone, i colori e i rumori che ci ho trovato dentro. I primi sei anni di vita di Harry Crews.
I raccolti andati al diavolo. La stufa Home Comfort numero 8. Pete Fretch. La famiglia di Willalee Bookatee. Il Libro dei Desideri. Gli occhi dell’opossum seppelliti in modo che guardino in su. Le sbronze pesanti da far arrivare l’odore di whiskey fino a qui. L’Ebreo con i capelli lunghi e la barba bianco sporco. I racconti di Zietta e la stanza degli uccelli. Il guaritore che recita i versetti di Ezechiele. Il volo nel calderone del maiale. Hollis Toomey che parla al fuoco. La fabbrica di sigari.
La Georgia del Sud tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. Prima e dopo, sfondo e cornice. Magia e miseria, famiglie spezzate che trovano sempre il modo di ricominciare.

“Il mondo che circondava la mia gente aveva un margine così ristretto per gli errori e la malasorte che quando una cosa andava storta, si tirava sempre dietro qualcos’altro. Era un mondo in cui per sopravvivere bisognava fare appello al coraggio della disperazione, un coraggio rafforzato dalla mancanza di alternative.”

A me queste storie fanno l’effetto di uno schiaffo in piena faccia. Mi lasciano un istante intontita e poi mi riportano con i piedi per terra. Come adesso. Adesso che l’estate è appena cominciata e già me la sento scappare di mano.
Forse è per questo che Un’infanzia è finito sulla mia scrivania solo in questo momento. Perché non ne avevo bisogno prima. Ne ho bisogno ora.

“In campagna non esisteva la carità. La gente si passava le cose senza tante cerimonie, i piselli perché non potevano venderli o ce n’erano troppi, e lo stesso i pomodori, il mais, il latte, e a volte addirittura un pezzo di carne, perché si sarebbe guastato prima di riuscire a mangiarlo. Ma non lo si faceva in un’ottica dello scambio. Né lo si chiamava elemosina o dono. Semplicemente, rientrava nell’ordine naturale delle cose per gente il cui problema essenziale, il primo e l’ultimo, era la sopravvivenza”.

Da sempre, chi non ha niente mi pare che capisca tutto meglio di me. Che poi non ho molto, ma forse per riuscire a scrivere cose così sincere dovrei avere ancora meno.

Storia di un boxeur latino

di Giovanni Di Prizito

‹‹La vita è una milonga, bisogna saperla ballare››

 

L’ho suonata per un lustro esatto, la batteria. Poi, come certe volte succede, gli amori si perdono, e fiorente maggiorenne lasciai perdere. Tra dubbi di vita, metrature risicate e traslochi ricorrenti non c’entrava mai. I ritmi: mi piacevano quelli del Sud, lenti ma incalzanti, un po’ giusti un po’ sbagliati, ‹‹sempre un poco in ritardo, sempre in levare.››

Ebbene. Leggendo Storia di un boxeur latino di Gianni Minà, Edizioni Minimum Fax, 2020, scritto con la complicità di Fabio Stassi, mi risiedo sullo stesso sgabello di quegli anni, riacchiappo le bacchette e rimetto il piede destro sul pedale della grancassa e quello sinistro al charleston. Mi rimetto a suonare insomma, insieme a tutta la banda.

In ordine sparso. Vinicius de Moraes, Toquinho, Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano, Louis Sepúlveda, Joan Manuel Serrat, Dizzy Gillespie, Sergio Leone, Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Adriano Celentano, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Monica Vitti, Isabella Rossellini, Federico Fellini, Emil Zátopek, il Subcomandante Marcos, Aleida Guevara March…

A ritmo di samba e bossa nova insieme a loro mi faccio il giro del mondo, ‹‹New York, Tokyo, San Francisco, Philadelphia, Pittsburgh, Montevideo, L’Avana, Salvador de Bahia, Buenos Aires, Rio De Janeiro, Città del Messico, Taiwan, Singapore…››, mentre Gianni Minà, con «l’irresistibile faccia tosta dei timidi che non arretrano di fronte a niente», mi racconta le storie. Sessant’anni di storie che sembrano romanzi, che sembrano inventate. Invece è tutto vero. E forse un giro non ci basta.

Gianni Minà mi racconta la notte del match del secolo a Kinshasa, nel 1974, quando ‹‹George Foreman era arrivato con un cane lupo al guinzaglio […]›› e ‹‹Muhammad Ali invece aveva fatto venire un bonghista dagli Stati Uniti […] per essere accolto con i ritmi della sua gente››. Aggiunge che ‹‹ogni tanto Ali abbracciava l’avversario e incitava la gente a urlare “Ali bomaye. Ali bomaye (Ali uccidilo. Ali uccidilo)”››. ‹‹Quella sera››, continua lui, ‹‹confesso di essermi sentito all’apice della mia carriera. […] Qualsiasi giornalista di qualunque paese avrebbe desiderato essere dentro lo spogliatoio di Ali […] Ma lì dentro, al centro di quella sfolgorante notte africana, c’ero solo io, con la mia mini troupe d’assalto››. C’era sempre lui, il 12 settembre 1979, a Città del Messico, dove Pietro Mennea, ‹‹il ragazzo di Barletta››, riuscì ‹‹con il leggendario tempo di 19’’72›› a battere ‹‹il record del suo idolo Tommie Smith›› sui 200 metri. Mi racconta poi l’intervista ‹‹storica›› del 1987 a L’Avana con Fidel Castro, sedici ore di fila. Subito gli chiese: ‹‹Comandante, per caso vuole conoscere prima le domande, come chiedono di solito i capi di stato?››. ‹‹Minà, ma con la storia che abbiamo lei pensa che noi possiamo aver paura delle parole?›› gli rispose Fidel Castro. E di quella volta a Buenos Aires, nel 1977, in pieno dramma desaparecidos, quando durante una conferenza in mondovisione, facendo calare il gelo nella sala, all’ammiraglio Lacoste disse: ‹‹Sono Gianni Minà, della Rai, siamo qui per un documentario musicale, ma siamo stati informati che ci sono dei problemi, che in questa città, da un po’ di tempo, sparisce la gente. È una notizia attendibile?››. E lui, l’ammiraglio, secco gli rispose: ‹‹Lei è male informato››. ‹‹Gianni, te ne devi andare›› gli aveva detto poi Giangiacomo Foà, portavoce dei giornalisti inviati in Argentina, ‹‹[…] il rischio è molto più serio di quanto pensi, qui la gente sparisce davvero […]››.

Poi mi mostra il ritratto che, nel 1975, sempre a Città del Messico, gli fece David Alfaro Siqueiros. ‹‹Gli occhi li ha fatti in un attimo. Così. Ssssc. Ha imbevuto il pennello e lo ha portato sul foglio. Quando lo ha tolto, erano perfettamente tondi. Mi corresse solo i baffi, tirandoli un po’ in su, ai lati. […]››, e alla fine mi fa vedere una ‹‹[…] fotografia fatta a Roma nel 1982, a Trastevere, davanti al ristorante Checco er Carrettiere […]››. Mi dice che quella fotografia ‹‹è la summa di quello che è stato il suo modo di essere, del piacere che dà l’amicizia e della possibilità di riunire una sera d’estate […] cinque amici avidi di curiosità per ascoltare i racconti del più affascinante tra loro […]››. Io la guardo meglio, e un po’ fatico a crederci. Ma, non posso che ripeterlo un’altra volta, è tutto vero. Gabriel García Márquez, Sergio Leone, Robert De Niro e lui. Al centro, Muhammad Ali, The Greatest. I racconti erano i suoi.

Una dopo l’altra, in un vortice di emotività e nostalgia, Gianni Minà mi racconta le storie. I viaggi. ‹‹Sempre, in qualsiasi posto mi sia trovato, sono partito per un altro. Curiosità o inquietudine, non lo so. È stato il mio modo di lavorare, o di vivere. Abbandonare le cose poco prima che finiscano e correre dove sta per nascere qualcosa di più interessante››. Mentre io ho come l’impressione di leggere un romanzo d’avventura, racconti epici e spettacolari che divoro a ritmo di samba e bossanova.

Inarrestabile, il piede destro batte sul pedale della grancassa, il sinistro serra il charleston e la bacchetta picchia duro sul bordo del rullante. ‹‹Sempre un poco in ritardo, sempre in levare››. Eccolo, finalmente. L’amore è tornato.